Il divieto di impugnare per revocazione una decisione che si è pronunciata su un ricorso per revocazione

Consiglio di Stato, sezione quarta, Sentenza 3 maggio 2019, n. 2889.

La massima estrapolata:

Il divieto di impugnare per revocazione una decisione che si è pronunciata su un ricorso per revocazione si giustifica perché l’ordinamento intende evitare che la definizione di una lite sia oggetto di ripetute contestazioni, spesso pretestuose, che impediscano la formazione di una statuizione idonea a concludere definitivamente la controversia.

Sentenza 3 maggio 2019, n. 2889

Data udienza 11 ottobre 2018

 

 

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Sezione Quarta
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 4711 del 2018, proposto da:
Ex. s.p.a, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentata e difesa dall’avvocato Gi. Pe., con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, corso (…);
contro
Si. s.p.a., in persona del legale rappresentante p.t., rappresentato e difeso dagli avvocati Ma. Cl., Ma. Pi., con domicilio eletto presso lo studio Ma. Cl. in Roma, viale (…);
nei confronti
C.N.-Co. Na. Se. Soc. Coop., in proprio e quale mandataria RTI, Pr. Ve. s.p.a,, Te. Se. S.r.l., So. s.p.a. e Ex. s.p.a., non costituiti in giudizio;
Consip s.p.a, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentata e difesa dagli avvocati Se. Fi., An. Gi., con domicilio eletto presso lo studio Se. Fidanzia in Roma, Piazzale (…);

sul ricorso numero di registro generale 5344 del 2018, proposto da:
C.N. Co. Na. Se. Società Cooperativa, in proprio e nella qualità di mandataria RTI Pr. Ve. s.p.a,, Te. Se. s.r.l.,, Ex. s.p.a,, So. s.p.a, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentati e difesi dall’avvocato Fr. Li., con domicilio eletto presso lo studio Fr. Li. in Roma, viale (…);
contro
Si. s.p.a., in persona del legale rappresentante p.t., rappresentata e difesa dagli avvocati Ma. Cl., Ma. Pi., con domicilio eletto presso lo studio Ma. Cl. in Roma, viale (…);
nei confronti
Consip s.p.a, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentata e difesa dagli avvocati Se. Fi., An. Gi., con domicilio eletto presso lo studio Se. Fi. in Roma, via (…);
Ex. s.p.a., So. Gr. Or. di At. s.p.a. non costituiti in giudizio;
per la revocazione
per entrambi i ricorsi,
della sentenza del Consiglio Di Stato – Sez. IV n. 02532/2018, resa tra le parti, concernente revocazione della sentenza Consiglio di Stato, Sez. IV, n. 813/2016.
Visti i ricorsi in appello e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio di Si. s.p.a. e di Consip s.p.a.;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 11 ottobre 2018 il Cons. Oberdan Forlenza e uditi per le parti gli avvocati Gi. Pe., Ma. Cl., Ma. Pi., Se. Fi. e An. Gi., Fr. Li.;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO

1.1.Con il ricorso in esame, la società Ex. s.p.a. chiede che questo Consiglio di Stato voglia disporre per la revocazione della propria sentenza 26 aprile 2018 n. 2532 (anch’essa pronunciata in sede di revocazione dalla Sez. IV).
La ricorrente premette di avere partecipato, in A,T.I. con CN. (Co. Na. Se. soc. coop.) quale capogruppo alla gara indetta da Consip s.p.a. per l’affidamento del servizio integrato energia per le pubbliche amministrazioni, lotto 2 riguardante la Regione Lombardia, risultando il detto raggruppamento secondo classificato, dopo Si. s.p.a..
Il raggruppamento proponeva, quindi, ricorso innanzi al TAR per la Lombardia che, con sentenza 15 ottobre 2015 n. 2167, lo respingeva, unitamente al ricorso incidentale proposto da Si. spa.
A seguito di impugnazione proposta dal CN., il Consiglio di Stato, sez. IV, con sentenza 29 febbraio 2016 n. 813 accoglieva l’appello e per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, accoglieva il ricorso instaurativo del giudizio di I grado ed il ricorso per motivi aggiunti, “eccezion fatta per la domanda di annullamento dell’attestazione di qualificazione rilasciata da Protos SOA in data 7 novembre 2017”, dichiarata irricevibile.
Al contempo, tale sentenza rigettava anche l’appello incidentale proposto da Si. s.p.a.
Quest’ultima società ha proposto ricorso per revocazione della citata sentenza n. 813/2016, accolto con la sentenza n. 2532/2018 della quale ora la società Ex. s.p.a. chiede disporsi la revocazione.
Giova precisare che la impugnata sentenza n. 2532/2018 ha definito solo la fase rescindente, rinviando ad altra udienza la discussione nel merito nella fase rescissoria.
1.2. La ricorrente, innanzi tutto, svolge considerazioni a sostegno della ammissibilità del mezzo di impugnazione, affermando, in particolare, come “risulterebbe contrario ad ogni principio in tema di uguaglianza di accesso ai mezzi di tutela che una siffatta pronuncia (cioè una pronuncia che “non disattende ma accoglie un ricorso revocatorio”, n. d.r.) non possa essere oggetto essa e per la prima volta (senza dunque alcuna reiterazione dei mezzi) del tipico strumento impugnatorio, non ricorrendo in alcun modo e nemmeno latamente la ratio del divieto”.
1.3. La ricorrente formula, quindi, i seguenti motivi di ricorso, con i quali evidenzia altrettanti “abbagli revocatori”
1.3.1. Con il primo motivo (pagg. 4 – 5), si espone che – mentre la sentenza impugnata “presuppone che la sentenza n. 813/2016 abbia accolto l’appello CN. esclusivamente con riguardo al motivo (cd. tesi formalistica) relativo all’interpretazione dell’art. 76 (del DPR n. 207/2010, n. d.r.) secondo cui l’impresa concorrente ad una gara in cui ha esibito una SOA ottenuta sulla base di una certa consistenza aziendale e che decida di spogliarsene (anche in parte) decada da quella qualificazione essendo onerata di ottenerne tempestivamente un’altra, a prescindere da ogni esame sul contenuto concreto della cessione intervenuta” – invece la detta sentenza n. 813/2016 ha innanzi tutto accolto l’appello poiché “ha ritenuto che è alla stregua dei contenuti specifici del contratto di cessione di ramo di azienda che Si. deve ritenersi aver perduto la qualificazione richiesta in gara” (parr. 15 ss. della sentenza, in particolare par. 17).
Secondo la ricorrente, dunque, il “non essersi la sentenza in epigrafe avveduta del primo e del tutto autonomo e assorbente motivo di accoglimento… integra abbaglio decisivo perché il Collegio non incorrendo nella svista avrebbe indubbiamente rilevato come potesse anche del tutto prescindersi dalla questione della (inesistente) istanza di rimessione alla Corte di Giustizia”, posto che tale questione “afferisce esclusivamente alla correttezza o meno della tesi formalistica e cioè solo al secondo e aggiuntivo motivo di accoglimento dell’appello CN., fermo restando l’autonomia e decisività del primo”.
1.3.2. Con il secondo motivo (pagg. 5 – 9), si espone che la sentenza n. 2532/2018, di cui si chiede la revocazione, ha accolto il quarto motivo rescindente “sull’espresso presupposto” che in giudizio Si. enucleava una istanza di rimessione alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, della quale la sentenza n. 813/2016 avrebbe omesso l’esame.
In tal senso, il seguente inciso motivazionale: “perché la recentissima decisione n. 8/2011 dell’Adunanza Plenaria ha ritenuto del tutto compatibile con il diritto dell’Unione Europea l’onere di mantenere il richiesto requisito di qualificazione per tutta la durata della procedura di gara”, inciso che sarebbe l’unico dedicato alla predetta istanza, manifesterebbe che il giudice avrebbe considerato un’istanza di contenuto diverso da quello dell’istanza presentata.
Orbene, secondo la società ricorrente “nel giudizio n. 8679/15, definito da CdS n. 813/2016, Si. non ha mai presentato la istanza di rimessione alla CGUE”, il che determina “il clamoroso decisivo abbaglio revocatorio”.
Un ulteriore “decisivo errore revocatorio” – sempre relativo all’accoglimento del quarto motivo rescindente – consisterebbe nel fatto che la sentenza n. 2532/2018 “presuppone che a detta (inesistente) istanza la sentenza n. 813/2016 avrebbe dato riscontro con le sole tre righe che la sentenza 2532/18 riporta al par. 9.3”.
Al contrario, a tale argomento “la sentenza n. 813 ha dato diffuso riscontro in ben quattro pagine di motivazione (da 42 a 47), per evidente ulteriore abbaglio sfuggite alla sentenza n. 2532/2018”.
2. Si è costituita in giudizio Consip s.p.a., che ha innanzi tutto evidenziato “plurimi profili di inammissibilità ” del ricorso per revocazione.
2.1. Ciò in quanto:
– “la società vorrebbe ottenere, di fatto, la celebrazione di un nuovo giudizio di revocazione in aperta violazione del divieto di revocatio revocationis previsto dall’art. 107 Cpa”, così contravvenendo a “principi di certezza giuridica e ragionevole durata del processo”; né ricorrono le “ipotesi in cui la domanda di revocazione è stata dichiarata inammissibile per ragioni formali insussistenti, difettando, per l’effetto, quelle ragioni di tutela che consentirebbero la deroga al divieto espresso dell’art. 107, co. 2, Cpa”, come individuate dalla giurisprudenza amministrativa (v. pagg. 5 – 12 memoria del 25 settembre 2018);
– “risulta… ancor più irragionevole e inammissibile il ricorso per revocatio revocationis promosso da Ex. se si considera che la società, al pari delle altre parti, può ancora espletare le proprie difese nella fase rescissoria del giudizio per revocazione instaurato dalla società Si.”; di modo che “allo stato attuale difetta l’interesse della ricorrente a contestare la decisione non definitiva adottata” poiché questa “ha esaurito tutti i suoi effetti nei confronti della sentenza d’appello revocata ma non possiede alcuna attitudine lesiva nei riguardi delle posizioni sostanziali delle parti” (v. pagg. 12 – 16 memoria cit.).
2.2. Quanto al “merito” del ricorso per revocazione, la Consip rileva l’infondatezza dei motivi proposti:
– sia in quanto “le attestazioni SOA fornite da Si. in sede di gara – in particolare l’attestazione n. 13307/11/00 del 7 novembre 2013 – da sole confermavano il possesso da parte della medesima società dei requisiti di partecipazione richiesti dal bando” (e la legittimità di tali attestazioni “non è mai stata messa in dubbio, giacché tardivamente impugnata da parte del Rti-CN. e definitivamente confermate, con efficacia ex tunc, dalla successiva attestazione del 2015” (ed anche la sentenza dell’Adunanza Plenaria n. 3/2017 “sulla scorta di una interpretazione sostanzialistica dell’art. 76, co. 11, DPR 207/2010 ha affermato il principio di diritto secondo cui detto articolo debba essere interpretato nel senso che la cessione del ramo d’azienda non comporta automaticamente la perdita della qualificazione”);
– sia in quanto “la Si. ha senz’altro sollevato la questione pregiudiziale comunitaria” e “di ciò se ne può avere piena contezza leggendo le pagine da 22 a 28 della memoria del 13 novembre 2015” e, d’altra parte “della proposizione della questione di pregiudizialità comunitaria… ne dà conto la stessa sentenza d’appello revocata n. 813 del 2016, nella quale, al punto 22, si legge l’erronea statuizione che ha causato la sua revoca… essendo indicate in maniera puntuale le ragioni – pur se erronee nei loro presupposti – del rigetto”. Peraltro, “non può nutrirsi dubbio alcuno sulla difformità in radice tra la questione pregiudiziale prospettata da Si. e quella sulla quale, invece, si è pronunciato il Giudice di appello”.
3. Si è altresì costituita in giudizio Si. s.p.a. che, con memoria del 25 settembre 2018, ha richiesto il rigetto del ricorso per revocazione, deducendo in particolare:
– inammissibilità del ricorso per revocazione per violazione degli artt. 107, co. 2, Cpa e 403, co. 1, cpc; poiché “superflua ogni speculazione interpretativa al riguardo, molto semplicemente l’ordinamento non ammette che sia impugnata per revocazione la pronuncia resa all’esito di un precedente giudizio di revocazione”; e la giurisprudenza ammette il superamento del divieto di impugnare per revocazione una decisione che si è pronunciata su un ricorso per revocazione solo “quando la domanda di revocazione sia stata dichiarata inammissibile per ragioni formali insussistenti, che abbiano precluso il suo esame, cioè quando la stessa statuizione di inammissibilità si sia basata su un errore di fatto”;
– inammissibilità dei singoli motivi di revocazione dedotti ai sensi degli artt. 106 Cpa e 395 n. 4 cpc; ciò in quanto:
a) con riferimento al primo errore di fatto contestato (non essersi avveduto il giudice che la sentenza n. 813/2016 sarebbe sorretta da un passaggio motivazionale autonomo e ulteriore rispetto all’accoglimento della tesi cd. formalistica”) si contesta “sotto le mentite spoglie di un preteso errore di fatto, un (presunto, ma insussistente) errore di giudizio compiuto dal Giudice”, e poiché la sentenza n. 2532/2018 “dedica ampio spazio proprio al profilo in discussione… è da escludere che si tratti di un punto non controverso e sul quale la decisione non abbia espressamente motivato”;
b) sempre con riferimento al primo errore di fatto, “perché il tema del rapporto tra la tesi cd. formalistica e le altre questioni oggetto della sentenza n. 813/2016 è stato specificamente trattato e approfondito dalla sent. n. 2532/2018, la quale ha correttamente ritenuto che la tesi cd. formalistica sia stato il perno motivazionale che ha condizionato l’intero iter logico-motivazionale della prima”;
c) quanto al secondo errore di fatto (primo profilo), l’affermazione secondo la quale “Si. non ha mai presentato la istanza di rimessione alla CGUE… è smentita dagli atti di causa”, poiché “nel giudizio di I grado… Si. aveva esplicitamente sollevato la questione pregiudiziale di compatibilità con il diritto comunitario dell’art. 76, co. 11, DPR n. 207/2010” (ciò nella memoria difensiva Si. depositata in data 1 giugno 2015 – procedimento TAR Lombardia, sez. IV, r.g. n. 2812/2014 – pp. 18-19). Tale questione è stata riproposta da Si. in sede di appello, con memoria depositata in data 14 novembre 2015, pp. 22-28, e la stessa vi ha insistito nell’udienza di discussione cautelare del 15 dicembre 2015. E “tanto era presente agli atti una richiesta di rimessione alla Corte di Giustizia, che la sentenza n. 813/2016, pur fraintendendo grossolanamente il contenuto della questione pregiudiziale sollevata da Si., ha espressamente affermato di non potere accogliere la richiesta di rinvio pregiudiziale alla CGUE”. Ne consegue che la ricorrente “non può dolersi della presunta inesistenza di una domanda giudiziale la cui esistenza è stata invece accertata (e peraltro trattata nel merito, sia pure stravolgendo i suoi contenuti) nella sentenza n. 813/2016 a monte”. Infine, “perché sorga il dovere di rimessione alla Corte di giustizia non è necessaria la formulazione, ad opera della parte, di un’apposita istanza espressa con formula sacramentale, ma è sufficiente che sia sollevata una questione pregiudiziale di diritto comunitario, rilevante ai fini della decisione della controversia, che sia tale da porre un dubbio interpretativo non manifestamente infondato, il quale non abbia già trovato soluzione in precedenti sentenze della Corte di Giustizia”;
d) quanto al secondo errore di fatto (secondo profilo), consistente nella circostanza secondo la quale la sentenza n. 813/2016 non avrebbe dedicato alla istanza di rimessione alla Corte di giustizia le sole tre righe che la sentenza 2532/18 riporta al par. 9.3, ma ben quattro pagine di motivazione, ebbene “in quelle quattro pagine invocate da Ex. la sentenza n. 813/2016 sviluppa sempre e soltanto il tema del possesso continuativo dei requisiti che nulla ha a che vedere con l’istanza di rimessione alla Corte di giustizia proposta da Si.”.
4. Dopo il deposito di ulteriori memorie e repliche, la causa è stata riservata in decisione.
5. Avverso la sentenza di questa Sezione 26 aprile 2018 n. 2532, ha proposto ricorso per revocazione anche il CN., Co. Na. Se. soc. coop. (r.g. n. 5344/2018).
5.1. Il Consorzio ricorrente ha svolto precisazioni in ordine all’ammissibilità del mezzo di impugnazione straordinario (v. pagg. 15-17 ric.), proponendo in via subordinata “questione di legittimità costituzionale degli artt. 107, co. 2 Cpa e 403, co. 1, cpc, nella parte in cui non consentono l’impugnazione per revocazione ai sensi dell’art. 395 n. 4 cpc della sentenza pronunciata nel giudizio per revocazione, in contrasto con gli artt. 3, 24 e 111 Cost.”.
5.2. Nel merito, ha articolato i seguenti motivi di ricorso (come precisati a pag. 14 ric.):
a1) errore revocatorio (v., in part., pagg. 7-11 ric.), poiché la sentenza “ha disposto la revocazione della sentenza 813/2016 esclusivamente alla stregua di un inesistente errore percettivo consistente nel mancato esame di una istanza (di rimessione alla CGUE) in realtà mai formulata”; difatti, “in nessuna domanda e/o difesa, né in primo né in secondo grado, Si. ha avanzato alcuna richiesta di rimessione alla CGUE”; conseguentemente, non avendo Si. proposto alcuna istanza, “non sussiste” – come invece affermato dalla sentenza n. 2532/2018, “il mancato esame, in punto di fatto, della questione materialmente posta, frutto di palese mancata percezione o errata lettura materiale dell’atto processuale”, tale da ridondare a “totale omessa pronuncia su una questione giuridica di formale istanza di rimessione pregiudiziale alla Corte di giustizia”;
b1) errore revocatorio (v. in part., pagg. 11-14), poiché non risponde al vero, in punto di fatto, che, come sostenuto dalla sentenza impugnata, “è mancata del tutto la disamina delle ragioni per le quali all’interpretazione del diritto interno prescelta dalla Sezione con la sentenza ingiustamente revocata non fosse di ostacolo il diritto europeo”. Difatti, essendosi Si., sia nella memoria depositata (nel giudizio di appello) in data 14 novembre 2015 sia negli scritti del giudizio di I grado, “limitata a dedurre che le doglianze dedotte dal CN. sarebbero erronee anche alla stregua dell’art. 52 della Direttiva 2004/18 e dei principi di proporzionalità e non discriminazione… la Sezione, con la sentenza 813/2016, ha espressamente confutato codeste argomentazioni”, in particolare al par. 22. In definitiva, la sentenza n. 813/2016 “da un lato ha espressamente spiegato le ragioni per le quali le statuizioni rese con la sentenza non si pongono in contrasto con la direttiva 2004/18 e con i principi di proporzionalità e ragionevolezza; dall’altro ha invocato il principio di continuità del possesso dei requisiti non già in relazione ad una inesistente istanza alla Corte di Giustizia, bensì con riferimento al secondo motivo d’appello, con il quale il CN. aveva dedotto che, in ogni caso, la Si. avrebbe dovuto essere esclusa dalla gara poiché, in ragione della cessione del ramo d’azienda, aveva perso il requisito della SOA, nelle more di una nuova verifica da parte dell’organismo di attestazione”.
6. Si è costituita in giudizio Consip s.p.a., che ha, anche in questo giudizio, innanzi tutto evidenziato “plurimi profili di inammissibilità ” del ricorso per revocazione.
6.1. Tali profili (v. pagg. 5-16 memoria del 25 settembre 2018) sono sostanzialmente riconducibili a quelli proposti nel giudizio per revocazione instaurato da Ex. s.p.a. (e sopra riportati al par. 2.1).
In ordine alla prospettata questione di legittimità costituzionale, la Consip conclude per la sua manifesta infondatezza (v. pag. 12 memoria cit.).
6.2. Quanto al “merito” del ricorso per revocazione (v. pagg. 16-27 memoria cit.),
la Consip afferma l’infondatezza di quanto prospettato dalla ricorrente in ordine ad una inesistente formulazione di istanza di rimessione alla CGUE da parte di Si., con argomentazioni sostanzialmente analoghe a quelle già esposte al precedente par. 2.2.
In sostanza, la Si. “ha formulato la questione pregiudiziale comunitaria” e di ciò “se ne può avere piena contezza leggendo le pagine da 22 a 28 della memoria del 13 novembre 2015” e, d’altra parte “della proposizione della questione di pregiudizialità comunitaria… ne dà conto la stessa sentenza d’appello revocata n. 813 del 2016, nella quale, al punto 22, si legge “non può essere accolta la richiesta di rinvio pregiudiziale alla CGUE” essendo indicate in maniera puntuale le ragioni – pur se erronee nei loro presupposti – del rigetto”.
Peraltro, secondo la Consip, “non può nutrirsi dubbio alcuno sulla difformità in radice tra la questione pregiudiziale prospettata da Si. e quella sulla quale, invece, si è pronunciato il Giudice di appello”.
7. Si è altresì costituita in giudizio la società Si. s.p.a., che con memoria del 25 settembre 2018, ha richiesto il rigetto del ricorso per revocazione, deducendone, preliminarmente, l’inammissibilità per violazione dell’art. 107, co. 2, Cpa e dell’art. 403, co. 1, cpc, nonché in relazione agli artt. 106 Cpa e 395 n. 4 cpc (per le ragioni già esposte innanzi sub par. 3), e rilevando come la questione di legittimità costituzionale prospettata da CN. sia irrilevante e manifestamente infondata.
In particolare, la Si. ha ribadito di avere proposto l’istanza di rimessione alla CGUE di questione pregiudiziale, nei sensi già innanzi riportati sub par. 3, lett. c).
8. Dopo il deposito di ulteriori memorie e repliche, all’udienza pubblica di trattazione anche questa causa è stata riservata in decisione.

DIRITTO

9. Il Collegio ritiene innanzi tutto di dover procedere alla riunione dei due ricorsi proposti, ai sensi dell’art. 96, co. 1 Cpa, poiché con i medesimi si richiede la revocazione della medesima sentenza 26 aprile 2018 n. 2532 della Sez. IV di questo Consiglio di Stato.
10. 1. Il Collegio ritiene, in via preliminare, opportuno ricordare quanto risultante dal verbale dell’udienza pubblica del 11 ottobre 2018 (relativamente alla discussione delle due cause ora riunite, chiamate per la discussione congiuntamente alla ulteriore causa r.g. n. 4754/2016), dal quale risulta quanto segue:
“L’avv. Pe. sottopone al Collegio la questione della sua composizione alla luce di una possibile rimeditazione della Plenaria 4/2014. Il Presidente chiede all’avv. Pe. se desidera un termine, che il Collegio sarebbe disposto a concedere, con rinvio della causa, per formalizzare la ricusazione del Collegio. L’avv. Pe. non ritiene di richiedere alcun termine. Analoga richiesta viene rivolta a tutti i difensori presenti. I legali di Si. interpretano la mancata richiesta di rinvio come assenza di volontà a proporre istanza di ricusazione.
Il Presidente del Collegio, quindi, invita le parti alla discussione della causa”.
10.2. Occorre ricordare che l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con sentenza 24 gennaio 2014 n. 4, ha affermato il principio in base al quale “anche alla luce del nuovo codice del processo amministrativo, debba escludersi l’applicabilità della norma di cui all’art. 51 n. 4 c.p.c. – richiamata dalla norma di rinvio di cui all’art. 17 c.p.a. – che prevede l’obbligo del giudice di astenersi quando abbia conosciuto della causa in altro grado del processo, allorquando sia lo “stesso ufficio giudiziario” che ha reso la pronuncia oggetto di revocazione, competente a decidere nuovamente; ne consegue che, ad eccezione dell’ipotesi del dolo del giudice o, comunque, dell’ipotesi in cui il giudice abbia un interesse proprio e diretto nella causa, i magistrati che hanno pronunciato la sentenza impugnata per revocazione possono legittimamente far parte del collegio investito della cognizione del giudizio revocatorio”.
Con tale decisione, l’Adunanza Plenaria ha rivisto il proprio precedente orientamento di cui alla sentenza 25 marzo 2009 n. 2, secondo la quale, in adesione all’indirizzo allora accolto dalla sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione 27 febbraio 2008, n. 5087, il dovere di astensione previsto dall’art. 51, n. 4, c.p.c., sussiste anche nei confronti del giudice chiamato a partecipare alla decisione della causa su cui si sia già pronunciato nello stesso grado di giudizio, e non solo nel caso in cui la seconda pronuncia intervenga in un nuovo e diverso grado di giudizio, in quanto le ragioni di garanzia della imparzialità e della terzietà del giudice valgono, allo stesso modo, in entrambi i casi.
Così pronunciando, l’Adunanza plenaria ha all’epoca aderito alla (allora nuova) linea interpretativa, secondo la quale l’alterità del giudice in sede di rinvio prosecutorio costituisce applicazione del principio di imparzialità -terzietà della giurisdizione, che ha “pieno valore costituzionale in relazione a qualunque tipo di processo” (cfr.: Corte 21 marzo 2002 n. 78; Corte Cost. 3 luglio 2002 n. 305; Corte Cost. 22 luglio 2003 n. 262 cit.).
Come ha osservato la citata sentenza n. 4/2014, “sebbene la materia del contendere vertesse solo sul giudizio a seguito di annullamento con rinvio, tuttavia la decisione n. 2 del 2009 cit. ha affermato che il dovere di astensione si estende anche all’ipotesi in cui il giudice sia chiamato a pronunciarsi nuovamente sulla vertenza in seguito a ricorso per revocazione della precedente sentenza, riconoscendo che il dovere di astensione deve valere ad assicurare anche l'”immagine” dell’imparzialità del giudice, così da evitare che egli possa sembrare condizionato dalla precedente pronuncia resa nella medesima controversia”.
Nel rivedere il precedente orientamento (peraltro frutto di un obiter dictum), l’Adunanza Plenaria ha considerato:
“le affermazioni dell’anzidetta decisione non sono state trasfuse negli articoli 106 e 107 c.p.a., sebbene emanato a breve distanza di tempo.
Anzi, l’art. 106, secondo comma, c.p.a. afferma, al comma 2, che “la revocazione è proponibile dinanzi allo stesso giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata”.
Naturalmente, dicendo “stesso giudice” la legge intende lo stesso “ufficio giudiziario”, e perciò deve ritenersi che la causa potrà essere affidata sia alla stessa e sia ad un’altra Sezione (cfr. Cass. 5 settembre 2006, n. 19041).
Nondimeno va ricordato che, a fronte della medesima espressione contenuta nell’art. 398, comma primo, c.p.c., secondo la giurisprudenza della Cassazione solo nel caso di revocazione per dolo del giudice (art. 395 n. 6 c.p.c.) non potrà far parte dell’organo giudicante la stessa persona fisica che ha emesso la sentenza revocanda, non sussistendo, negli altri casi, per il magistrato che ha pronunciato la sentenza impugnata per revocazione, alcuna incompatibilità a partecipare al giudizio di revocazione stesso (cfr. Cass., sez. lav., 12 settembre 2006, n. 19498).
Va altresì ricordato che nel processo civile ed amministrativo non sono applicabili le regole sulle incompatibilità soggettive del giudice fissate nel processo penale bensì soltanto le cause di astensione e ricusazione stabilite dal c.p.c…….
….Sul piano generale, esigenza imprescindibile, rispetto ad ogni tipo di processo, è solo quella di evitare che lo stesso giudice, nel decidere, abbia a ripercorrere l’identico itinerario logico precedentemente seguito; sicché condizione necessaria per dover ritenere una incompatibilità endoprocessuale è la preesistenza di valutazioni che cadano sulla stessa res iudicanda.
Senonché, come anche ripetutamente affermato dalla Corte di Cassazione, salva ovviamente l’ipotesi di dolo del giudice, non sussiste per i magistrati che avevano pronunciato la sentenza revocanda alcuna incompatibilità a partecipare alla decisione sulla domanda di revocazione, atteso che essa non predica, per sua natura, un errore di giudizio (Cass. nn. 2342/1962, 1624/1965, 2222/1987 e, da ultimo, sez. lav., 12 settembre 2006, n. 19498).
Il principio trae giustificazione dalla circostanza che la decisione impugnata è dovuta ad un errore involontario del giudice, o talmente grossolano da risolversi in una svista; pertanto, il fatto che non sia possibile imputare al giudice un errore di giudizio comporta che allo stesso non sia addebitabile un pregiudizio tale da impedirgli, allorché chiamato nuovamente a giudicare della materia controversa, di assumere una decisione senza essere condizionato da quella precedentemente resa (cfr. Cass., n. 19498/06 cit.).
Tale principio non trova ovviamente applicazione nell’ipotesi di dolo del giudice (cfr. Cass. Sez. Un., n. 733 del 2005, in tema di revocazione delle sentenze del Consiglio di Stato; nonché Corte Conti, sez. I giur. centr. app., 24.3.2004, n. 120/A); detto caso rappresenta, invero, l’unica ipotesi di incompatibilità del magistrato a partecipare alla decisione sulla domanda di revocazione.
E, invero, in difetto di tempestiva ricusazione la violazione da parte del giudice dell’obbligo di astenersi nell’ipotesi prevista dall’art. 51 n. 4 c.p.c. (a cui rinvia espressamente l’art. 17 c.p.a.), non comporta la nullità della sentenza ex art. 158 c.p.c., al di fuori del caso in cui il giudice abbia un interesse proprio e diretto nella causa, in modo da porlo nella posizione sostanziale di parte (cfr. Cass., Sez. Un., 28.1.2002, n. 1007; Cass., 18.1.2002, n. 528; Cass., 22.6.2005, n. 13370; Cass., 29.3.2007, n. 7702)”.
10.3. Nel caso di specie, il Collegio decidente sulle due cause attualmente riunite risulta composto, in particolare, anche da un Magistrato, relatore di entrambe, già componente (senza veste di relatore/estensore) sia del Collegio che ha pronunciato la sentenza n. 813/2016, sia del Collegio che ha pronunciato la sentenza n. 2532/2018, che ha disposto la revocazione della precedente.
A fronte di tale circostanza, parte ricorrente – come risultante dal verbale di udienza innanzi riportato, che sintetizza una più ampia discussione sul punto – per un verso, non ha inteso proporre istanza di ricusazione (sebbene a tal fine espressamente interpellata); per altro verso, ha chiesto al Collegio di porsi “la questione della sua composizione alla luce di una possibile rimeditazione della Plenaria 4/2014”.
10.3. Orbene, la proposta “possibile rimeditazione della Plenaria 4/2014”, con conseguente rilevanza sulla attuale composizione del Collegio giudicante, non può che essere intesa – in assenza di ricusazione del Collegio nella sua interezza o di uno o più dei suoi componenti – se non come una istanza al medesimo Collegio perché voglia valutare la rimessione della questione all’Adunanza Plenaria, perché a sua volta questa possa eventualmente ritornare – essendo l’unico giudice a ciò abilitato, ai sensi dell’art. .99, co, 3, Cpa – sul principio di diritto da essa enunciato con la propria sentenza n. 4/2014.
In altre parole, alla luce del chiaro principio di diritto enunciato dalla citata sentenza n. 4/2014 dell’Adunanza Plenaria, occorre innanzi tutto osservare:
– il Collegio non può porsi, in via diretta, alcun problema in ordine alla propria composizione (in relazione alla circostanza che ne faccia parte un giudice che ha già partecipato ai Collegi che hanno in precedenza pronunciato), poiché tale composizione è “legittimata” dalla più volte citata sentenza n. 4/2014, il cui principio di diritto, in ordine all’interpretazione dell’art. 51 cpc, nel caso di specie, è vincolante ex art. 99 Cpa;
– il singolo giudice componente del Collegio non ha alcun motivo di astensione, né obbligatoria né tantomeno facoltativa, proprio perché, secondo la predetta sentenza, non sussiste a suo carico alcun dovere o opportunità di astensione, collegata alla sua precedente partecipazione ad altri Collegi giudicanti sulla medesima causa (in tal senso, Cons. Stato, sez. V, 4 agosto 2014 n. 4136);
– il che comporta – sia per il Collegio, sia per ciascuno dei suoi componenti (non ultimo quello “interessato” dalla partecipazione a decisioni precedenti) – che una (eventuale) manifestazione di volontà di non prendere parte alla (nuova) decisione – in quanto non normativamente giustificata – finirebbe con il costituire sia una disapplicazione “di fatto” del principio di diritto espresso dall’Adunanza Plenaria, sia un venir meno ai doveri di ufficio; e, in definitiva, finirebbe con l’incidere sul principio, costituzionalmente garantito, della precostituzione per legge del giudice naturale.
Ciò che invece il Collegio giudicante potrebbe, in astratto, eventualmente decidere è – come si è già appunto esposto – la rimessione della questione all’Adunanza Plenaria, in tal modo sollecitandone una nuova decisione, tale da eventualmente superare la sua precedente e vincolante interpretazione.
Tuttavia, il Collegio non ritiene di rimettere nuovamente la questione all’Adunanza Plenaria:
– sia in quanto non ha, allo stato, motivo di non condividere il più volte citato principio di diritto né è rilevabile la sussistenza di ulteriori profili della questione medesima non in precedenza vagliati dall’Adunanza Plenaria (né profili nuovi sono stati forniti dalla parte che ha “sollevato” la questione);
– sia in quanto l’interpretazione offerta dall’Adunanza Plenaria trova conferma anche nella giurisprudenza della Corte di Cassazione (Cass. Civ., sez. II, 12 gennaio 2017 n. 656);
– sia in quanto, nella concreta esperienza giudiziaria, i Collegi chiamati a decidere ricorsi per revocazione vedono (o meno) la presenza di componenti già facenti parte di precedenti Collegi che hanno deciso sulla medesima causa, senza che risultino problematicità nell’applicazione concreta del principio di diritto enunciato dall’Adunanza Plenaria n. 4/2014.
11. I due ricorsi per revocazione sono entrambi inammissibili.
Il Collegio ritiene che l’inammissibilità discenda, innanzi tutto, dal fatto che i ricorsi risultano proposti in violazione di quanto previsto dagli artt. 107, co. 2, Cpa e 403, co. 1, Cpc, (in tal senso accogliendo anche la specifica eccezione proposta sia da Consip sia da Si.).
In ogni caso, i medesimi ricorsi sono comunque inammissibili anche per la concorrente ragione che risultano inammissibili – per le ragioni che di seguito si esporranno, ed ove anche se ne volesse ammettere la proponibilità – i singoli motivi di revocazione proposti da ambedue le parti ricorrenti.
12.1. L’art. 107, co. 2 Cpa prevede che “la sentenza emessa nel giudizio di revocazione non può essere impugnata per revocazione”.
Tale disposizione ribadisce, per ciò che riguarda il processo amministrativo, quanto previsto dall’art. 403 c.p.c., (“impugnazione della sentenza di revocazione”), secondo il quale:
“Non può essere impugnata per revocazione la sentenza pronunciata nel giudizio di revocazione.
Contro di essa sono ammessi i mezzi di impugnazione ai quali era originariamente soggetta la sentenza impugnata per revocazione”.
12.2. La giurisprudenza, sia civile che amministrativa è costante nell’affermare l’inammissibilità di un ricorso per revocazione proposto avverso una sentenza di revocazione (Cass. Civ., sez. VI, 20 dicembre 2011 n. 27865; Sez. Un., 9 marzo 2006 n. 5055 e 20 aprile 2004 n. 7584; Cons. Stato, sez. III, 10 luglio 2013 n. 3720).
Più in particolare, la giurisprudenza amministrativa (Cons. Stato, sez. VI, 12 febbraio 2018 n. 871; sez. V, 19 febbraio 1996 n. 219), ha tuttavia affermato che
“il divieto di impugnare per revocazione una decisione che si è pronunciata su un ricorso per revocazione si giustifica perché l’ordinamento intende evitare che la definizione di una lite sia oggetto di ripetute contestazioni (spesso pretestuose), che impediscano la formazione di una statuizione idonea a concludere definitivamente la controversia;
il medesimo divieto non si applica unicamente quando la domanda di revocazione sia stata dichiarata inammissibile “per ragioni formali” insussistenti, che abbiano precluso il suo esame, cioè quando la stessa statuizione di inammissibilità si sia basata su un errore di fatto (ad es., quando il ricorso per revocazione sia stato dichiarato erroneamente inammissibile per irritualità della sua notifica…)”.
Già la sentenza 27 dicembre 2011 n. 6832 di questo Consiglio di Stato, sez. VI, aveva affermato:
“La giurisprudenza di questo Consiglio – con analisi estesa anche alla codificazione del processo civile del 1865 e del 1942 ed alle stesse relazioni di accompagnamento ai progetti di codice – ha posto in rilievo la ratio della anzidetta preclusione, che si identifica nell’opportunità di evitare che, attraverso la riedizione del mezzo di impugnazione, si determini l’effetto dilatorio di differire la formazione del giudicato, con ricaduta sulla certezza dei rapporti giuridici, sulla ragionevole graduazione degli strumenti per il riesame del decisum, oltreché sull’economia dei mezzi stessi apprestati dall’ordinamento per la tutela dei diritti e degli interessi (cfr. Cons. St. Sez. V, n. 219 del 19 febbraio 1996; sez. IV, n. 1476 del 20 marzo 2000; sez. II, n. 566 del 5 giugno 1991).
La possibilità del riesame della sentenza emessa in esito a giudizio di revocazione – nel quadro di una interpretazione costituzionalmente orientata alla luce delle garanzie di tutela in sede giurisdizionale apprestate dall’art. 24 della Costituzione – può trovare eccezionale ingresso in presenza di un ulteriore ed autonomo errore di fatto posto a base della sentenza che ha deciso il primo giudizio di revocazione che, in limine litis, abbia precluso l’esplicarsi del rimedio stesso sul piano sostanziale, dando luogo ad una declaratoria di irricevibilità o di inammissibilità per erronea considerazione dei presupposti e delle condizioni a tal fine rilevanti, riconducibile alle ipotesi descritte all’art. 395, n. 4, cod. proc. civ. (cfr. Cons. St., Sez. IV, n. 1476 del 2000; Sez. V n. 219 del 1996 cit.), nonché nei casi del tutto residuali di nullità della sentenza per difetto di sottoscrizione in assenza di impedimento, ovvero di carenza in toto di elementi essenziali (motivazione o dispositivo), che si risolvono nell’inesistenza stessa dell’atto conclusivo del giudizio revocatorio”.
In definitiva, secondo la riportata giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, fermo il generale divieto di proporre ricorso per revocazione avverso una sentenza che si è già pronunciata su un ricorso per revocazione, divieto di cui agli artt. 107, co. 2 Cpa e 403 c.p.c., – il che comporta l’inammissibilità del ricorso non già per difetto delle condizioni dell’azione, ma per divieto di esercizio dell’azione in sé – può tuttavia proporsi il predetto ricorso per revocazione:
– o nel caso di statuizioni in rito, viziate da errore di fatto, che abbiano sostanzialmente precluso il giudizio di revocazione (es. declaratoria, per errore di fatto, della tardività di un ricorso per revocazione in realtà tempestivamente proposto);
– o nei casi in cui, per errore di fatto del giudice relativo ad aspetti formali di instaurazione del contraddittorio (ad. es., un difetto di notifica alla controparte non rilevato), la pronuncia risulta insanabilmente affetta da nullità ;
– o nei casi in cui, per sostanziale mancanza di uno degli elementi ontologicamente fondanti la decisione, quest’ultima non può che essere dichiarata inesistente (per mancanza della motivazione e/o del dispositivo, mancanza di sottoscrizione in difetto di impedimento ovvero sottoscrizione da parte di soggetti non componenti il Collegio giudicante).
Tali conclusioni, peraltro, non sono condivise da altra giurisprudenza amministrativa (Cons. Stato, sez. III, 10 luglio 2013 n. 3720), secondo la quale:
“la formulazione dell’art. 107, comma 2, c.p.a., corrispondente a quella dell’art. 403, c.p.c., appare precisa ed inequivoca in quanto sottrae ad una nuova domanda di revocazione “la sentenza emessa nel giudizio di revocazione”. Non distingue a seconda del tipo di vizio che venga imputato alla sentenza de qua; né a seconda del fatto che tale vizio sia omogeneo o meno a quello che aveva dato motivo al precedente ricorso per revocazione; né a seconda del fatto che il nuovo vizio prospettato si sia determinato, in tesi, nella fase rescindente ovvero in quella rescissoria; né, ancora, in relazione al dispositivo (di accoglimento, di rigetto, di inammissibilità, etc.) della sentenza emessa nel precedente giudizio di revocazione; ovvero al fatto che la parte che propone la nuova domanda di revocazione si identifichi o meno con quella che aveva proposto la precedente.
La clausola preclusiva è di tale nettezza che impedisce di impugnare per revocazione anche la sentenza che abbia definito il giudizio di revocazione con una pronuncia meramente processuale (come ad es. l’inammissibilità per un vizio di forma nel relativo ricorso o nella sua notificazione, o per la violazione di un termine) in ipotesi viziata da un conclamato errore di fatto.
In questa situazione, non si ravvisano margini per un’interpretazione che consenta di limitare la preclusione ad alcune ipotesi esentandone altre. Se si rinvengono decisioni che in singole fattispecie hanno deciso altrimenti, sono casi talmente remoti ed isolati che non si può neppure parlare di una tendenza giurisprudenziale minoritaria.
La scelta del legislatore si spiega con l’intento evitare che le liti si prolunghino all’infinito per effetto di successive impugnazioni. In effetti, il diritto costituzionalmente garantito di agire e difendersi in giudizio (art. 24 Cost.) non include un diritto illimitato all’impugnazione delle sentenze. Com’è noto, nella procedura civile non è costituzionalizzato il “doppio grado”, inteso come possibilità di proporre appello; lo è, invece, il ricorso per Cassazione, peraltro per soli motivi di legittimità . Nella giurisdizione amministrativa, com’è noto, il ricorso per Cassazione è ammesso solo per le questioni di giurisdizione (art. 111). D’altra parte, la tutela dei diritti individuali si deve ragionevolmente equilibrare con l’esigenza della certezza del diritto.
Né la Convenzione Europea sui Diritti dell’Uomo del 1950, né la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea del 2010, impongono la garanzia di gradi di giudizio molteplici o addirittura illimitati”.
A quanto ora esposto, occorre aggiungere che la Corte di Cassazione (sez. II, 18 ottobre 2016 n. 21019), esclude che avverso le sentenze pronunciate in sede di revocazione sia esperibile il rimedio (ex art. 111, co. 7, Cost.) del ricorso per Cassazione (laddove si tratti di sentenza o ordinanza della medesima Corte), poiché il principio di effettività del giudizio di Cassazione implica che tale rimedio non è utilizzabile quando il controllo di legittimità sull’oggetto del giudizio sia stato già svolto dalla Suprema Corte, dovendo prevalere, in tal caso, l’esigenza di assicurare che il processo giunga a conclusione in tempi ragionevoli, ex art. 111, comma 2, Cost..
Da ciò consegue, inoltre, che non potrebbe costituire oggetto di ricorso per Cassazione l’erronea affermazione della propria giurisdizione da parte del Consiglio di Stato, anche in sede di revocazione, sia perché avverso la prima decisione soggetta a ricorso per revocazione avrebbe dovuto essere esperito il ricorso per Cassazione per motivi inerenti alla giurisdizione, sia perché, ove anche sussistente, si tratterebbe comunque di errore di diritto.
12.3. Il Collegio ritiene di dovere innanzi tutto ribadire la piena operatività del divieto previsto dagli artt. 107, co. 2 Cpa e 403 c.p.c., proprio per le ragioni ampiamente espresse dalla giurisprudenza innanzi citata (così come già confermato dalla sentenza di questo stesso Consiglio di Stato, sez. IV, 9 gennaio 2019 n. 198).
La possibilità (ragionevolmente) ammessa dai codici di rito di ricorso per la revocazione della sentenza, nelle ipotesi previste dall’art. 395 c.p.c., non può risolversi in un defatigante sistema volto ad impedire la definizione del giudizio.
Già le limitazioni previste dal citato art. 395 c.p.c. per la concreta esperibilità del mezzo straordinario di impugnazione rispondono alla ratio di impedire, quale che sia la giurisdizione, la indebita introduzione di un ulteriore grado di giudizio.
A maggior ragione il divieto di “revocazione della revocazione” è volto del tutto ragionevolmente ad impedire che l’impugnazione di una sentenza, occasionata dalla proposizione di una impugnazione già definita “straordinaria”, possa trasformarsi essa stessa in uno strumento per “tenere in vita” la causa, impedendone la decisione definitiva e, dunque, l’effettività della tutela.
D’altra parte, se non può escludersi – in teoria – che la sentenza pronunciata in sede di revocazione possa essere affetta anch’essa da difetti della medesima specie di quelli ipotizzabili ex art. 395 c.p.c. per una “ordinaria” sentenza, nondimeno la logica complessiva dell’ordinamento giuridico (ed il buon senso) impongono una scelta volta a privilegiare – una volta che è stato già previsto ed utilizzato il mezzo di impugnazione straordinario, e dunque una volta garantita anche questa ulteriore, eccezionale esigenza di tutela – la diversa esigenza di effettività della tutela giurisdizionale e di (conseguita) stabilità dei rapporti giuridici, per come derivanti dalla decisione emessa in sede di revocazione.
In definitiva, l’ordinamento giuridico opera, nella descritta disciplina della revocazione, un comprensibile e condivisibile bilanciamento tra valori costituzionalmente previsti e tutelati:
– da un lato, la previsione del mezzo straordinario del ricorso per revocazione adempie all’esigenza di garantire la più piena attuazione del diritto alla tutela giurisdizionale, ex art. 24 Cost., andando anche oltre (proprio perché mezzo di impugnazione straordinario) i gradi ordinari di giudizio;
– dall’altro lato, il divieto di “revocazione della revocazione” afferma lo speculare principio del diritto alla tutela giurisdizionale delle altre parti evocate in giudizio (diritto che ricomprende sia, in negativo, quello di non essere oggetto di innumerevoli azioni, prive di ragionevole giustificazione, sia, in positivo, quello di vedere definito ed assicurato il risultato processualmente conseguito), ed inoltre realizza in concreto il principio di ragionevole durata del processo, ex artt. 111, co. 2, Cost e 6 Cedu.
12.4. Nondimeno, risultano comprensibili le ragioni che hanno condotto parte della giurisprudenza ad ammettere, in dichiarata interpretazione costituzionalmente orientata, limitati casi di revocazione della sentenza pronunciata su ricorso per revocazione.
Si tratta, come si è detto, di ipotesi eccezionali e di “strettissima individuazione” e che appaiono compatibili sia con i principi costituzionali (dei quali vogliono costituire, anzi, una più piena attuazione), sia con una corretta interpretazione del divieto di cui agli art. 107 Cpa e 403 c.p.c..
Se è vero che non può essere impugnata per revocazione una sentenza emessa nel giudizio di revocazione, è altrettanto vero che un previo “giudizio di revocazione” in senso proprio deve essersi effettivamente svolto e l’atto conclusivo, oltre a non essere affetto da nullità, deve possedere i “requisiti minimi” perché esso possa essere considerato “esistente” e riconoscibile, appunto, come sentenza.
In questo senso, in linea con il prevalente orientamento della giurisprudenza amministrativa, che si é già avuto modo di illustrare:
a) non deve essere intervenuta una statuizione in rito, viziata da errore revocatorio, che abbia sostanzialmente precluso il precedente giudizio di revocazione;
b) la decisione deve essere emanata all’esito di un contraddittorio correttamente instaurato, perché non può esservi valida sentenza – in quanto atto pronunciato da un giudice terzo in un giudizio tra parti poste in posizione di parità processuale – senza contraddittorio delle parti medesime (artt. 2, 3, 24 e 111, co. 1 e 2, Cost.; artt. 6 e 13 Cedu); ne consegue che il contraddittorio deve essere correttamente instaurato anche nel giudizio di revocazione
c) la sentenza, perché possa essere definita tale, deve possedere taluni requisiti minimi tra quelli previsti per legge (art. 132 c.p.c.), e cioè una “motivazione” (imposta dall’art. 111, co. 6 Cost.) ed un “dispositivo” (quale “comando” imperativamente emesso dal Giudice) ed essere sottoscritta dai giudici investiti del relativo potere (onde ricondurre l’atto in modo incontrovertibile all’autorità emanante).
In questo terzo caso, è bene precisare che, quale requisito ontologico della sentenza, deve esistere un testo (un insieme di segni) riconducibile ad un significante definibile come “motivazione” di quanto deciso, dovendosi al contempo escludere ogni ulteriore analisi cognitiva del testo medesimo (ciò attenendo al significato, e dunque alla sufficienza e logicità, o meno, della motivazione e non già alla sua materiale sussistenza).
Allo stesso modo, per difetto del dispositivo deve intendersi un difetto concreto ed integrale del “comando” pronunciato dalla sentenza, esulando da tale ipotesi, ad esempio, i casi di dispositivo incompleto o in contraddizione con la motivazione (casi nei quali la giurisprudenza ammette pacificamente l’integrazione/correzione del dispositivo in via interpretativa).
E’ in questi sensi e limiti (nel terzo dei casi innanzi riportati, quasi astratte ipotesi di scuola) che deve essere letta la giurisprudenza innanzi citata, che ammette talune “specialissime” ipotesi di revocazione della sentenza pronunciata all’esito di un giudizio per revocazione.
Peraltro, riportare tali specialissime ipotesi di revocazione al caso di “errore sul fatto” non significa riconoscere in generale la possibilità di ricorso per revocazione per errore sul fatto (nell’accezione attribuita dalla giurisprudenza a tale ipotesi contemplata dall’art. 395 n. 4 c.p.c.) della sentenza pronunciata sul ricorso per revocazione, ma solo ricondurre pochi specialissimi casi alla più idonea categoria loro confacente tra quelle contemplate dal citato art. 395 c.p.c.
12.5.1. Nel caso di specie, i motivi di revocazione sia proposti da Ex. (v. supra, sub 1.3.), sia proposti da CN. (v. supra sub 5.2) non sono a tutta evidenza riconducibili alle ipotesi nelle quali parte della giurisprudenza ammette la “revocazione della revocazione”; né tali ipotesi, per le ragioni innanzi esposte, possono essere oggetto di una interpretazione “estensiva”, tale da ampliare la stretta casistica innanzi riportata, ovvero di una interpretazione volta ad escludere dal divieto di revocazione proprio la sentenza pronunciata (come nel presente caso) in fase rescindente.
I motivi proposti, infatti, lungi dal lamentare una statuizione in rito, viziata da errore revocatorio, preclusiva del precedente giudizio di revocazione o una non corretta instaurazione del contraddittorio per difetto di notifica, ovvero un difetto “integrale” (nei sensi esposti sub 12.4) di motivazione e/o di dispositivo, ovvero di sottoscrizione della sentenza, si riferiscono, lato sensu, a asseriti difetti di percezione, da parte del giudice della revocazione, in ordine all’esistenza di una istanza di rimessione alla Corte di Giustizia e in ordine all’esatto contenuto della sentenza revocanda, ovvero dell’atto processuale sul quale si è innestato il riscontrato errore revocatorio.
Come tali, dunque, essi non possono essere ritenuti ammissibili.
12.5.2. Per le ragioni innanzi esposte (v. sub 12.3), è manifestamente infondata la “questione di legittimità costituzionale degli artt. 107, co. 2 Cpa e 403, co. 1, cpc, nella parte in cui non consentono l’impugnazione per revocazione ai sensi dell’art. 395 n. 4 cpc della sentenza pronunciata nel giudizio per revocazione, in contrasto con gli artt. 3, 24 e 111 Cost.”, sottoposta all’attenzione del Collegio da CN. (v. par. 5.1.), oltre che da Ex. s.p.a. (v. pag. 4 ric.).
Per un verso, si sono già esposte le ragioni che fondano la previsione del contestato divieto, che, in sintesi – una volta che è già stato riconosciuto lo straordinario mezzo di impugnazione rappresentato dal (primo) ricorso per revocazione – rappresenta il ragionevole punto di bilanciamento tra una pluralità di valori costituzionalmente tutelati.
Per altro verso, pur volendo accedere alla più favorevole interpretazione giurisprudenziale che riconosce talune limitatissime ipotesi di “revocazione della revocazione” – laddove l’escludere dette ipotesi avrebbe potuto far sorgere il dubbio di costituzionalità degli artt. 107, co. Cpa e 403 c.p.c., per violazione degli artt. 3, 24 e 111 Cost. – occorre riscontrare che queste ultime non ricorrono nel caso di specie, rendendo quindi la questione proposta, oltre che manifestamente infondata, anche priva di rilevanza ai fini del presente giudizio.
12.6. Le conclusioni alle quali si è innanzi pervenuti, e che costituiscono anche accoglimento delle eccezioni di inammissibilità formulate sia da Consip che da Si., rendono superfluo l’esame dell’ulteriore eccezione di inammissibilità dei ricorsi per difetto di interesse proposta da Consip s.p.a. (v. parr. 2.1 e 6.1.).
13. Ferma l’inammissibilità dei ricorsi innanzi dichiarata, questi ultimi – come si è già detto (v. ante, sub 11) – sono inammissibili anche per le ulteriori, concorrenti ragioni che riguardano, specificamente, i singoli motivi di ricorso proposti da ciascuna delle parti ricorrenti, e che il Collegio – attesa la complessità della vicenda giudiziaria – intende comunque esplicitare.
14.1. La sentenza oggetto dei ricorsi per revocazione (n. 2532/2018) ha a sua volta disposto la revocazione della precedente sentenza di questa Sezione n. 813/2016, in accoglimento del quarto motivo del ricorso per revocazione proposto da Si. s.p.a., specificamente dedicando all’esame il proprio par. 9, pagg. 20 – 29 (del quale – pur nella consapevolezza dell'”appesantimento” derivante alla presente decisione – si ritiene di riportare ampi stralci, in ragione della delicatezza oggettiva del punto e della circostanza che è proprio esso ad essere oggetto dei motivi del ricorso per revocazione ora in esame).
La sentenza ha ricordato – in paragrafo posposto (par. 9.14) rispetto al casus determinante la revocazione – che:
“la giurisprudenza amministrativa, a far data dal fondamentale pronunciamento del Consiglio di Stato in sede di Adunanza plenaria (sentenza n. 3 del 22 gennaio 1997), ha dato una lettura estensiva dell’errore di fatto revocatorio, ritenendo di farvi rientrare anche l’omessa pronuncia su domande o eccezioni di parte, concorrendo – le stesse – a delimitare il thema decidendum.
A tale fattispecie va equiparata l’omessa pronuncia su questioni pregiudiziali di rilevanza europea, suscettibili di divenire oggetto (come nel caso all’esame) di una formale istanza di rimessione ad un plesso giurisdizionale (la Corte di Giustizia) diverso da quello adito, e competente in via esclusiva, per effetto delle limitazioni di sovranità cui hanno consentito gli Stati membri, ad interpretare esattamente e con uniformità di applicazione il diritto europeo. La conclusione, del resto, trova conforto in via interpretativa nell’identica ratio iuris sottesa alla nozione di domanda, altro non essendo – l’istanza di rimessione – che una domanda rivolta al giudice interno di rimettere la valutazione di una questione all’unico organo giurisdizionale deputato secondo il Trattato istitutivo a fornire l’esatta e uniforme interpretazione del diritto europeo. La rimessione, peraltro, per le Corti di ultima istanza (tale era il Consiglio di Stato nel caso de quo) rappresenta anche un preciso obbligo giuridico”.
14.2. Ciò considerato, la sentenza impugnata (par. 9.1.) ha osservato che:
“allo scopo di avversare la tesi (formalistica), secondo la quale ogni ipotesi di trasferimento di un ramo aziendale comporterebbe, di per sé, l’automatica decadenza delle attestazioni SOA di titolarità della cedente, Si. ha insistito – fin dal primo grado di giudizio – per la rimessione alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea della questione pregiudiziale di compatibilità comunitaria del diritto interno (o della interpretazione di questo) che ciò, in ipotesi, consentisse”.
Ciò Si. faceva – secondo la sentenza impugnata – enucleando “la seguente, letterale istanza di rimessione” (riportata e leggibile sub par. 9.1, pag. 21 sent.):
“Se:
– l’art. 52, commi 3 e 4, della direttiva 2004/18/CE (oggi art. 64, commi 4 e 5 della direttiva 2014/24/UE), nella parte in cui stabiliscono che la titolarità della certificazione costituisce presunzione di idoneità della sussistenza dei requisiti necessari che preclude alla stazione appaltante la possibilità di ogni contestazione in assenza di un giustificato motivo;
– l’art. 44, commi 1 e 2 della direttiva 2004/18/CE (oggi art. 56 comma 1, lett. b) della direttiva 2014/24/UE), nella parte in cui consente l’esclusione dalle gare solo in mancanza dei requisiti soggettivi, delle abilitazioni professionali e dei requisiti minimi di capacità economica e finanziaria;
– il considerando n. 2 della direttiva 2004/18/CE (oggi art. 18, par. 1, comma 1 della direttiva 2014/24/UE), nella parte in cui impongono il rispetto dei principi di proporzionalità, trasparenza e non discriminazione, nonché lo stesso fondamentale principio di tutela della concorrenza nel mercato interno,
debbano essere interpretati nel senso che ostino ad una norma o interpretazione del diritto interno in virtù della quale, in caso di cessione anche di un minimo ramo di azienda, il cedente perda, per ciò solo, automaticamente, i requisiti per la partecipazione ad un gara di appalto e possa esserne conseguentemente escluso, e ciò anche quando i beni aziendali di cui rimane titolare siano tali da lasciare assolutamente inalterata la consistenza dei requisiti tecnici di partecipazione”.
A fronte di tale istanza di rimessione, la sentenza revocanda (cioè la n. 813/2016) avrebbe denegato la rimessione alla Corte Europea “sulla scorta della seguente motivazione: “perché la recentissima decisione n. 8/2015 dell’Adunanza Plenaria ha reputato del tutto compatibile con il Diritto dell’Unione europea l’onere di mantenere il richiesto requisito di qualificazione per tutta la durata della procedura di gara”.
Così riassunti i termini della questione (oggetto del quarto motivo revocatorio), la sentenza n. 2532/2018 ha dunque affermato (parr. 9.4 – 9.8):
“9.4. Si tratta, dunque, di stabilire se tra l’istanza posta e il decisum assunto vi sia stata (o meno) correlazione logica in primo luogo, e in che modo – in ipotesi di discrasia – tale errore debba essere qualificato.
9.4. Quanto al primo aspetto, è palese dalla mera lettura degli atti di causa che Si. avesse articolato un’istanza precisa, volta, sia nel suo significato letterale, sia in quello sistematico, in stretta aderenza alle censure dedotte avverso l’atto impugnato, a conoscere, sulla vicenda, il punto di vista della Corte di Giustizia. Ciò a motivo, per un verso, della rilevanza comunitaria della questione, e, per altro verso, del monopolio della Corte – in forza dei Trattati istitutivi – in ordine all’esatta interpretazione e uniformità di applicazione del diritto europeo (principi del primato e dell’effettività del diritto europeo).
L’istanza mirava a sapere, in sostanza, se il diritto europeo ostasse a norme interne o a interpretazioni di esse (anche di natura giurisdizionale) che consentissero di ritenere automaticamente persi, in capo al soggetto cedente, i requisiti di qualificazione per la partecipazione ad una gara di appalto, per ciò solo e quale mero effetto automatico della cessione di un ramo d’azienda a un altro soggetto resosi cessionario, a prescindere da un accertamento ex post e in concreto della perduranza dei presupposti fattuali, rispetto all’azienda relitta ancora in capo al soggetto cedente, della pregressa qualificazione.
9.5. La risposta opposta dal giudice, a sostegno del diniego di rimessione, ha motivato circa l’obbligo del mantenimento dei requisiti di qualificazione per tutta la durata della procedura.
9.6. L’errore percettivo della questione posta nell’appello è evidente ictu oculi.
9.7. Il giudice, nella lettura del contenuto materiale dell’atto, ha sostituito una questione (quella effettivamente postagli con l’istanza di rimessione) con un’altra (del tutto diversa), il cui solo punto di contatto è rappresentato dall’essere (la domanda immaginata) una mera eventualità della prima (quella effettivamente posta).
Le due questioni, infatti, come rispettivamente poste e quali emergono dalla sentenza e dagli atti e dai documenti processuali, divergono in senso assoluto, sia in relazione alla loro esistenza, che al loro significato letterale: l’una (quella posta della parte) argomenta sulla causa (la cessione del ramo d’azienda) per conoscere il punto di vista europeo sugli effetti (perdita automatica o non automatica dei requisiti di qualificazione); l’altra (quella su cui risponde il giudice, dando per scontata la soluzione della perdita automatica), invece, si incentra su un profilo dinamico e diacronico degli effetti della perdita del requisito (necessità o meno di mantenere il requisito per tutta la durata della gara e individuazione dell’esatto momento in cui ritenere perfezionato il possesso del medesimo in capo al soggetto partecipante) che la parte non aveva interesse a contestare: era noto e ovvio a tutti, infatti, a seguito del pronunciamento dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 8/2015, che il requisito di qualificazione andasse mantenuto per tutta la durata della gara.
9.8. Ciò che, invece, noto e ovvio non era (da qui la necessità di porre la questione pregiudiziale europea) è se il detto requisito potesse considerarsi automaticamente perduto per effetto della sola cessione del ramo d’azienda, anche minimo e tale da non incidere sui presupposti fattuali sulla cui base era stato attestato il possesso della pregressa qualificazione.
È proprio in punto di fatto che, dunque, la risposta non si attaglia alla domanda: solo se il giudice avesse (prima) escluso l’incompatibilità comunitaria della soluzione giurisprudenziale interna che si aveva in animo di adottare (la tesi formalistica della cessazione automatica), motivando su tutti e tre i profili di diritto comunitario suggeriti dalla parte, avrebbe – di poi – potuto indagare l’ulteriore profilo, diverso e non richiesto, della possibilità di optare per la cristallizzazione del possesso dei requisiti prima della cessione, ovvero per l’onere del mantenimento di questi durante tutta la gara.
L’avere, invece, indagato quest’ultimo profilo in modo sganciato da quello che era, nella sostanza, il vero presupposto fattuale della questione dedotta in giudizio da Si. (l’accertamento che mai nessuna perdita fosse avvenuta e che, se mai si avesse avuto dubbio al riguardo, occorresse rimettere la questione alla Corte) ha concretato un vero e proprio errore nella percezione fattuale della questione medesima”.
Individuato in tali termini l’errore sul fatto, la sentenza n. 2532/2018 ha altresì chiarito:
– che l’errore “è caduto su un punto non controverso tra le parti” (par. 9.9.);
– che l’errore “è stato decisivo” (par. 9.10), in quanto “è stato idoneo a indirizzare la decisione in un senso piuttosto che in un altro”;
– che l’errore “è di immediata rilevabilità, senza necessità di argomentazioni induttive o indagini ermeneutiche” (par. 9.11). Ciò in quanto, mentre “la parte ha formulato un’istanza precisa nel suo contenuto e supportata da parametri certi sui quali misurare un giudizio di (eventuale) dubbio di compatibilità europea del diritto interno”, viceversa, “in punto di fatto, invece, è accaduto che l’esame della vera questione posta è stato obliterato, con la diretta conseguenza che è mancata del tutto la disamina delle ragioni per le quali a tale interpretazione del diritto interno, da parte dell’organo giurisdizionale, non fosse di ostacolo il diritto europeo degli appalti (segnatamente: l’art. 52, commi 3 e 4, della direttiva 2004/18/CE (oggi art. 64, commi 4 e 5 della direttiva 2014/24/UE); l’art. 44, commi 1 e 2 della direttiva 2004/18/CE (oggi art. 56 comma 1, lett. b) della direttiva 2014/24/UE); il considerando n. 2 della direttiva 2004/18/CE, oggi art. 18, par. 1, comma 1 della direttiva 2014/24/UE). Né dagli atti di causa è altrimenti evincibile – sempre in punto di fatto – un alternativo percorso logico-giuridico idoneo a sostenere e spiegare le ragioni del diniego di rimessione alla Corte”.
Alla luce di tutte le considerazioni da essa esposte, la sentenza n. 2532/2018 ha quindi concluso affermando:
– (par. 9.12, pag. 25): “secondo l’insegnamento tradizionale, ciò che resta passibile di censura non è il ragionamento logico-giuridico (frutto di eventuale errata interpretazione di diritto o di una errata valutazione della censura) che ha portato il giudice a non rimettere la questione pregiudiziale alla Corte, bensì il solo mancato esame, in punto di fatto, della questione materialmente posta, frutto di palese mancata percezione o errata lettura materiale dell’atto processuale”;
– (par. 9.16, pagg. 28-29): “Nella fattispecie all’esame, al lume di tutte le considerazioni sopra esposte, è ictu oculi riscontrabile e, dunque, meritevole di censura, la descritta assoluta divergenza (in punto di fatto) tra la rappresentazione emergente dalla sentenza e quella risultante dagli atti e dai documenti processuali, idonea nel contempo a determinare, da un canto, una totale omessa pronuncia sulla questione posta dalla parte (far verificare alla Corte di Giustizia la compatibilità comunitaria della tesi formalistica propugnata dalla controparte, laddove, eventualmente, sposata dal Collegio decidente); e, dall’altro canto, una irrilevante e non richiesta disamina di una questione non rinvenibile negli atti del processo (interrogare la Corte europea sugli effetti derivanti dalla perdita dei requisiti di qualificazione, e se cioè viga il principio del mantenimento di essi per tutta la durata della gara ovvero se, di converso, sia in ipotesi sufficiente il possesso di essi nel solo momento iniziale)”.
15. Come si è riportato nell’esposizione in fatto, tale capo della decisione è stato oggetto dei ricorsi per revocazione sia di Ex. s.p.a., sia di C.N. Co. Na. Se. soc. coop.
15.1. Due dei motivi di revocazione sono sostanzialmente comuni ad ambedue le parti ricorrenti. Ed infatti:
– ambedue i ricorrenti rilevano che la sentenza n. 2532/2018, di cui si chiede la revocazione, ha accolto il quarto motivo rescindente, e ciò sull’espresso presupposto che in giudizio Si. enucleava una istanza di rimessione alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, della quale la sentenza n. 813/2016 avrebbe omesso l’esame, laddove, al contrario “nel giudizio n. 8679/15, definito da CdS n. 813/2016, Si. non ha mai presentato la istanza di rimessione alla CGUE”, il che determina “il clamoroso decisivo abbaglio revocatorio” (così il ricorso Ex., v. ante, sub par. 1.3.2; in senso conforme, il ricorso CN. – v. ante sub par. 5.2, sub lett. a1) – secondo il quale “in nessuna domanda e/o difesa, né in primo né in secondo grado, Si. ha avanzato alcuna richiesta di rimessione alla CGUE”; conseguentemente, non avendo Si. proposto alcuna istanza, ” “non sussiste… il mancato esame, in punto di fatto, della questione materialmente posta, frutto di palese mancata percezione o errata lettura materiale dell’atto processuale”, tale da ridondare a “totale omessa pronuncia su una questione giuridica di formale istanza di rimessione pregiudiziale alla Corte di giustizia”;
– ambedue i ricorrenti rilevano che un ulteriore “decisivo errore revocatorio” – sempre relativo all’accoglimento del quarto motivo rescindente – consisterebbe nel fatto che la sentenza n. 2532/2018 “presuppone che a detta (inesistente) istanza la sentenza n. 813/2016 avrebbe dato riscontro con le sole tre righe che la sentenza 2532/18 riporta al par. 9.3”, laddove, al contrario, a tale argomento “la sentenza n. 813 ha dato diffuso riscontro in ben quattro pagine di motivazione (da 42 a 47), per evidente ulteriore abbaglio sfuggite alla sentenza n. 2532/2018” (così il ricorso Ex., v. ante par. 1.3.2.; in senso sostanzialmente conforme il ricorso CN. – v. ante sub par. 5.2, sub lett. b1) – secondo il quale essendosi Si., sia nella memoria depositata (nel giudizio di appello) in data 14 novembre 2015 sia negli scritti del giudizio di I grado, “limitata a dedurre che le doglianze dedotte dal CN. sarebbero erronee anche alla stregua dell’art. 52 della Direttiva 2004/18 e dei principi di proporzionalità e non discriminazione… la Sezione, con la sentenza 813/2016, ha espressamente confutato codeste argomentazioni”, in particolare al par. 22, di modo che la sentenza n. 813/2016, in sostanza “da un lato ha espressamente spiegato le ragioni per le quali le statuizioni rese con la sentenza non si pongono in contrasto con la direttiva 2004/18 e con i principi di proporzionalità e ragionevolezza; dall’altro ha invocato il principio di continuità del possesso dei requisiti non già in relazione ad una inesistente istanza alla Corte di Giustizia, bensì con riferimento al secondo motivo d’appello, con il quale il CN. aveva dedotto che, in ogni caso, la Si. avrebbe dovuto essere esclusa dalla gara poiché, in ragione della cessione del ramo d’azienda, aveva perso il requisito della SOA, nelle more di una nuova verifica da parte dell’organismo di attestazione”.
15.2. Un ulteriore motivo di revocazione è, invece, proposto solo dalla ricorrente Ex. s.p.a. (il primo in ordine di esposizione), secondo la quale (v. ante, par. 1.3.1.), mentre la sentenza impugnata “presuppone che la sentenza n. 813/2016 abbia accolto l’appello CN. esclusivamente con riguardo al motivo (cd. tesi formalistica) relativo all’interpretazione dell’art. 76 (del DPR n. 207/2010, n. d.r.) secondo cui l’impresa concorrente ad una gara in cui ha esibito una SOA ottenuta sulla base di una certa consistenza aziendale e che decida di spogliarsene (anche in parte) decada da quella qualificazione essendo onerata di ottenerne tempestivamente un’altra, a prescindere da ogni esame sul contenuto concreto della cessione intervenuta” – invece la detta sentenza n. 813/2016 ha innanzi tutto accolto l’appello poiché “ha ritenuto che è alla stregua dei contenuti specifici del contratto di cessione di ramo di azienda che Si. deve ritenersi aver perduto la qualificazione richiesta in gara” (parr. 15 ss. della sentenza, in particolare par. 17).
Secondo la ricorrente, dunque, il “non essersi la sentenza in epigrafe avveduta del primo e del tutto autonomo e assorbente motivo di accoglimento… integra abbaglio decisivo perché il Collegio non incorrendo nella svista avrebbe indubbiamente rilevato come potesse anche del tutto prescindersi dalla questione della (inesistente) istanza di rimessione alla Corte di Giustizia”, posto che tale questione “afferisce esclusivamente alla correttezza o meno della tesi formalistica e cioè solo al secondo e aggiuntivo motivo di accoglimento dell’appello CN., fermo restando l’autonomia e decisività del primo”.
16. Così riepilogati i motivi dei due ricorsi per revocazione in esame, occorre osservare che gli stessi si presentano come affatto differenti e non univocamente riconducibili all’ipotesi di errore sul fatto per la quale l’art. 395 n. 4 prevede la possibilità di revocazione.
Giova innanzi tutto osservare che – fermo quanto si è già detto in punto di inammissibilità dei ricorsi ai precedenti parr. 11 e 12 per violazione del divieto di legge di “revocazione della revocazione” -, quand’anche in via di astrazione si potesse superare tale profilo di inammissibilità (in realtà non superabile e di per sé autonomamente dirimente), ai motivi proposti dovrebbero comunque applicarsi – onde verificare se gli stessi evidenziano un effettivo “errore sul fatto” revocatorio, ai sensi dell’art. 395 n. 4 C.p.c. – i medesimi strumenti esegetici elaborati dalla giurisprudenza per la “normale” revocazione.
16.1. Si ricorda che l’orientamento costante di questo Consiglio di Stato (sez. IV, 25 novembre 2016 n. 4983; 24 gennaio 2011 n. 503), è nel senso che la “svista” che autorizza e legittima la proposizione del rimedio della revocazione, tendenzialmente eccezionale anche nei casi di c.d. revocazione ordinaria (cfr. Cass., n. 1957/1983), è rappresentata o dalla mancata esatta percezione di atti di causa, ovvero dall’omessa statuizione su una censura o su una eccezione ritualmente introdotta nel dibattito processuale.
Secondo, infatti, il principio enunciato dall’Adunanza Plenaria (dec. 22 gennaio 1997, n. 3; in senso conf., Ad. plen. nn. 3 del 2001, 2 del 2010, 1 del 2013, 5 del 2014;,Cons. St., sez. IV, 8 giugno 2009, n. 3499; sez. IV, 23 settembre 2008, n. 4607; sez. IV, 19 ottobre 2006, n. 6218; Sez. IV, 16 maggio 2006, n. 2781; sez. VI, 23 febbraio 2011 n. 1145), non v’è dubbio che l’errore di fatto revocatorio debba cadere su atti o documenti processuali.
Tuttavia, non sussiste vizio revocatorio se la dedotta erronea percezione degli atti di causa – che si sostanzia nella supposizione dell’esistenza di un fatto la cui verità è incontrastabilmente esclusa, ovvero nella supposizione dell’inesistenza di un fatto, la cui verità è positivamente stabilita – ha costituito un punto controverso e, comunque, ha formato oggetto di decisione nella sentenza revocanda, ossia è il frutto dell’apprezzamento, della valutazione e dell’interpretazione delle risultanze processuali da parte del giudice (cfr, Cons. St., sez. VI, 5 giugno 2006, n. 3343; Cass. Civ., Sez. II, 12 marzo 1999 n. 2214).
Ed infatti, in questi casi (cioè nei casi di presunto errore di fatto su un punto che ha costituito un punto controverso), ogni ipotizzabile errore non può che essere ricondotto ad un errore di valutazione del dato fattuale e non già di percezione del medesimo (dunque, un eventuale errore di diritto ma mai un errore sul fatto).
L’errore di fatto revocatorio si configura, quindi, come un abbaglio dei sensi, per effetto del quale si determina un contrasto tra due diverse proiezioni dello stesso oggetto, l’una emergente dalla sentenza e l’altra risultante dagli atti e documenti di causa; esso può essere apprezzato solo quando risulti da atti o documenti ritualmente acquisiti agli atti del giudizio, con esclusione, quindi, delle produzioni inammissibili.
È stato pertanto ritenuto inammissibile il rimedio della revocazione per un errore di percezione rispetto ad atti o documenti non prodotti ovvero per un errore di fatto la cui dimostrazione avviene mediante deposito di un documento prodotto per la prima volta in sede di revocazione (Cons. Stato, sez. V, 16 novembre 2010, n. 8061; sez. IV, 13 ottobre 2010, n. 7487).
Per contro, sono vizi logici e dunque errori di diritto quelli consistenti nell’erronea interpretazione e valutazione dei fatti o nel mancato approfondimento di una circostanza risolutiva ai fini della decisione (Cons. Stato, sez. V, 21 ottobre 2010, n. 7599).
Infine, l’errore di fatto deve essere elemento determinante della decisione, la quale “è l’effetto” del primo. Di conseguenza, l’errore revocatorio può ammissibilmente essere invocato solo quando vi sia un rapporto di causalità necessaria fra l’erronea od omessa percezione fattuale e documentale e la pronuncia in concreto adottata dal Giudice. Con l’ulteriore conseguenza della non rilevanza dell’errore quando la sentenza si fondi su fatti, seppur erronei, che non siano decisivi in se stessi ai fini del decidere, ma debbano essere valutati in un più ampio e complesso quadro probatorio (Cass. Civ., sez. III, 20 luglio 2011 n. 15882).
16.2. Tanto ricordato e ribadito nella presente sede, occorre tuttavia osservare che il giudizio revocatorio, allorchè ne è oggetto una sentenza che ha già disposto una revocazione, presenta una sostanziale differenza rispetto al primo giudizio di revocazione: e cioè che oggetto di esame non è più direttamente il complessivo materiale processuale (ed in particolare, per quel che interessa nella presente sede, la domanda e/o motivo di ricorso del quale, per difetto di percezione, si assume essere stato omesso l’esame), bensì la sola ricostruzione operata dal Giudice della revocazione in ordine al (precedente) difetto di percezione costituente errore sul fatto.
Si intende affermare che:
– mentre nel “primo” giudizio di revocazione, oggetto di esame è la relazione intercorrente tra “percezione del giudice” da un lato, ed “atti o documenti processuali” (ivi compresi motivi/domande/eccezioni che si assumono non esaminati) dall’altro;
– nel “secondo” giudizio di revocazione, l’oggetto di esame non è più quello ora esposto, bensì è la relazione tra “percezione del giudice della (precedente) revocazione” e “percezione del giudice della sentenza revocata”, relazione rispetto alla quale il dato costituito dall’atto e/o documento costituisce solo parametro “esterno” di riferimento. In altre parole, il rapporto tra il dato di fatto “originario” e il secondo giudice della revocazione non è diretto, ma è “mediato” dalla valutazione/percezione del primo giudice della revocazione, ed è questo il “dato” oggetto del nuovo giudizio di revocazione (poiché ciò che si impugna non è la decisione di un giudice su una res controversa, assumendola affetta da vizio revocatorio, ma la decisione di un giudice avente ad oggetto la precedente decisione di un altro giudice sulla res controversa). Il che determina, a tutta evidenza, un (per così dire) “restringimento” del vizio revocatorio dell’errore sul fatto. Ed infatti, poiché – salvi i casi di mancanza materiale dell’atto (e dunque, nel caso di specie, della domanda supposta esistente) la cui mancata percezione aveva determinato la prima revocazione – oggetto del nuovo giudizio di revocazione è la operata valutazione del precedente difetto di percezione, quest’ultima, costituendo esattamente il punto “controverso”, non è suscettibile, in quanto tale, di fondare un errore sul fatto revocatorio.
Ciò comporta che:
– se il riscontro del difetto di percezione è anch’esso fondato su un “nuovo” difetto di percezione, perché manca del tutto la domanda (il motivo) che invece il giudice della prima revocazione ha dichiarato esistente e non esaminato, allora si può ipotizzare un errore sul fatto;
– se, invece, oggetto del motivo revocatorio è il percorso logico con il quale il Giudice della precedente revocazione ha ricostruito il difetto di percezione di una domanda o di un motivo che, in quanto non esaminato, occorrerebbe ritenere “non percepito” dal giudice della prima sentenza revocata e ha ritenuto “decisivo” tale difetto di percezione, allora tale motivo revocatorio non propone un errore sul fatto, bensì una censura all’iter logico seguito dal giudice della precedente revocazione, e dunque, per il tramite del vizio di motivazione, un suo (presunto) errore di diritto;
– d’altra parte, appare evidente che il (presunto) errore sul fatto riguarderebbe un punto sicuramente “controverso” tra le parti (cioè, l’esistenza o meno di un difetto di percezione decisivo nella prima sentenza, che costituiva precisamente il punto controverso oggetto di valutazione da parte del giudice della revocazione), e, quindi, esulante dalle condizioni che rendono possibile la rilevabilità del predetto errore e la revocazione della sentenza di revocazione.
16.3. Con riferimento ai motivi di revocazione proposti da entrambe le parti, ciò comporta che il primo di essi (denunciata inesistenza della domanda di rimessione alla CGUE che la sentenza n. 2532/2018 ritiene non esaminata dalla sent. n. 813/2016) ove esistente potrebbe in astratto costituire errore sul fatto, poiché attiene al dato materiale della presenza (o meno) di una domanda non esaminata dal giudice per suo errore di percezione (in sostanza, se non c’è la domanda non può esservi omesso esame della medesima).
16.4. Al contrario, il secondo motivo di revocazione comune ad entrambe le parti (che con questo denunciano come l’esame della questione di violazione del diritto europeo sarebbe stato comunque effettuato dalla sentenza n. 813/2016 in altri “luoghi” della medesima), attiene non già al difetto di percezione del giudice della prima revocazione (cioè aver ritenuto esistente una domanda invece inesistente, e quindi avere erroneamente affermato un difetto di percezione, con ciò cadendo egli in un difetto di percezione), ma attiene alla valutazione da questi operata in ordine al difetto di percezione di un altro precedente giudice, e quindi sull’iter motivazionale della sentenza di revocazione (id est, sugli argomenti in base ai quali – a fronte di una domanda esistente – il giudice della revocazione è pervenuto ad affermare il difetto di percezione del giudice precedente).
Il che – in disparte ogni valutazione sulla contraddittorietà tra i due motivi, poiché da un lato si assume l’inesistenza di una domanda, mentre dall’altro si sostiene che essa sarebbe stata esaminata ben più di quanto affermato dalla sentenza n. 2532/2018 – poiché rappresenta il “punto controverso” di tale ultima sentenza, di cui si chiede la revocazione, esclude la sussistenza di un errore revocatorio.
16.5. A maggior ragione non può costituire errore sul fatto quanto dedotto da Ex. con il motivo di “revocazione della revocazione” da essa autonomamente proposto, poiché – se oggetto della revocazione non può che essere il “dato materiale” fondante la revocazione medesima (cioè il non aver pronunciato su una domanda) – la circostanza che, pur accogliendo il motivo di revocazione, la sentenza revocata (cioè la sentenza n. 813/2016) avrebbe comunque potuto reggersi su un “primo e del tutto autonomo e assorbente motivo di accoglimento” dell’appello, lungi dal costituire errore revocatorio della sentenza di revocazione ex art. 395 n. 4, costituirebbe, al più, un errore di diritto della medesima, che come tale non può comportare revocazione.
In sostanza, con tale motivo si assume che la sentenza n. 2532/2018, nel momento in cui ha rilevato un difetto di percezione del giudice della sentenza n. 813/2016 costituente errore revocatorio, non si è avveduta che tale errore non era comunque “determinante” ai fini della revocazione, potendo la citata sentenza n. 813/2016 “reggersi” su altro “autonomo e assorbente motivo di accoglimento”.
Ma questo aspetto non può, a tutta evidenza, costituire errore sul fatto, bensì solo ed eventualmente un errore di diritto della sentenza n. 2532/2018 (che ha espressamente dichiarato che tale errore era reputato “decisivo” dal Collegio: v. par. 9.10), non avente effetti revocatori.
17. In definitiva, alla luce di quanto esposto – anche a voler superare, per mera astrazione, il divieto ex lege della “revocazione della revocazione” – solo il primo dei motivi di revocazione proposto da entrambe le parti (sub 16.3) comporta l’esame di un (supposto) errore di fatto, mentre il secondo motivo comune (sub 16.4) ed il motivo proposto dalla sola Ex. s.p.a. (sub 16.5) sono comunque inammissibili (e peraltro, come di seguito esposto, fondano in ogni caso su argomentazioni che non consentono di riscontrare in atti alcun errore di fatto).
18.1. Il primo motivo di revocazione proposto da entrambe le parti (sub 16.3), con il quale queste lamentano l’inesistenza di una domanda di rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione Europea (domanda che sarebbe stata non esaminata dalla sentenza n. 813/2016 e che quindi, essendo stata “non percepita” da tale Giudice, fonderebbe l’errore di fatto revocatorio di tale sentenza) è inammissibile.
Occorre innanzi tutto osservare che la sentenza n. 2532/2018 presenta effettivamente una imprecisione, laddove intende riprodurre in modo letterale l’istanza di rinvio pregiudiziale presentata da Si., ma tale imprecisione si configura in termini molto più limitati di quelli denunciati e senza che possa ritenersi “decisiva” al fine di fondare la decisione di revocazione, ai sensi dell’art. 395 n. 4 c.p.c.
Ed infatti, ciò che potrebbe rappresentare un errore di fatto revocatorio sarebbe l’avere ritenuto sussistente una domanda di rimessione di una questione alla CGUE (e di poi affermare che la stessa non sia stata esaminata dal Giudice), laddove tale domanda non sia invece in atti.
Invece, ben diverso è il caso in cui detta domanda – se pur non negli esatti termini riportati in sentenza – sia stata proposta e sia dunque documentalmente presente in atti, sia pure in una esposizione diversa rispetto a quella riportata, ma avente contenuto sostanzialmente ana.
In questa seconda ipotesi, si è in presenza di una mera svista (consistente nell’utilizzazione di una esposizione/citazione diversa di un atto avente un contenuto sostanzialmente ana), come tale non solo non risolutiva ai fini della decisione, ma mancante degli elementi integratori dello stesso “errore di fatto”, poiché il “fatto”, cioè la domanda proposta, è presente in atti, ancorché di esso “fatto” sia stata fornita una diversa (ma sostanzialmente innocua) rappresentazione.
18.2. Orbene, va osservato che effettivamente negli atti del giudizio conclusosi con la sentenza n. 813/2016 non risulta formulata in sede di gravame una istanza di rimessione alla CGUE negli esatti termini erroneamente riportati nella sentenza n. 2532/2018 (par. 9.2., pag. 21), termini forse ripresi da istanze formulate in altri giudizi, e che la ricorrente Ex. – v. pag. 7 ric. – attribuisce ad “una mera riproduzione (nel linguaggio dei programmi di videoscrittura cd. “copia e incolla”) della decisione n. 2530/2018″.
18.3. Tuttavia, occorre in primo luogo osservare che, nel corso del giudizio r.g. n. 8679/2015 (conclusosi con la sent. n. 813/2016), la domanda di rimessione della questione pregiudiziale alla CGUE è stata effettivamente formulata.
Infatti, nel verbale dell’udienza in camera di consiglio del 15 dicembre 2015 si legge:
“la difesa della Si. insiste per un rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea ai sensi dell’art. 267 del Trattato”.
Laddove la “insistenza” si riferisce non solo alla già intervenuta proposizione di domanda di rinvio pregiudiziale formulata nel corso del giudizio di I grado, rammentata dalla Si. nella sua memoria depositata il 26 settembre 2018 e la cui esistenza era espressamente menzionata nella sentenza n. 2532/2018, ma anche e soprattutto a ciò che si evince dalla memoria Si. del 13 novembre 2015, depositata il successivo 14 novembre (punto 2.3, pagg. 22-25), che ripropone e precisa la questione posta nel primo grado.
Si legge ivi:
“Peraltro, la tesi della perdita automatica dei requisiti e la conseguente inefficacia della SOA finirebbe per porsi in evidente e grave contrasto con le norme e con i principi generali del diritto comunitario, dato che, in estrema sintesi, introduce una causa di esclusione del tutto nuova e soprattutto del tutto irragionevole e priva di giustificazione”
Il contrasto con l’art. 52, commi 3 e 4 della Direttiva 2004/18/CE è infatti evidente […].
Ancor più evidente risulta poi il contrasto con il principio di proporzionalità e di non discriminazione, di cui ai considerando n. 2 ed all’art. 44, comma 2, della Direttiva 2004/18/CE (oggi art. 18 par. 1, comma 1, della Direttiva 2014/24/UE), risultando sproporzionato e irragionevole, nonché contrario ad una effettiva concorrenza funzionale a garantire la partecipazione dei candidati su una base di eguaglianza, procedere all’esclusione immediata dalla gara di un concorrente, nell’assunto del tutto ipotetico che la cessione del ramo di azienda lo abbia privato dei requisiti necessari alla partecipazione.
Si tratterebbe, infatti, di una nuova causa di esclusione, non prevista da alcuna norma, e fondata sulla (del tutto irragionevole) presunzione assoluta della perdita dei requisiti necessari, sottostanti all’attestazione SOA […]
E’ comunque chiaro che, nella giurisprudenza della Corte di giustizia, l’individuazione di ulteriori (rispetto a quelle previste dalla normativa comunitaria) cause di esclusione deve sempre rispettare i principi di proporzionalità, pertinenza e par condicio”.
Occorre, dunque, osservare che le deduzioni contenute nella memoria del 13 novembre 2015 innanzi riportate, costituiscono, unitamente alle conseguenti considerazioni (a fortiori in un contesto in cui una formale istanza di rimessione era stata presentata nel primo grado del giudizio), già una richiesta – ancorché formulata in modo implicito al Giudice d’appello – di investire della questione interpretativa la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, laddove il Giudice ritenesse di accedere a tale contrastata tesi, stante lo specifico obbligo ad esso Giudice imposto dall’art. 267 TFUE a prescindere da specifiche istanze espresse con (non previste) formule sacramentali.
Tale richiesta “implicita” è stata, comunque, resa “esplicita” anche nel grado di appello, come si è già detto, all’udienza in Camera di consiglio del 15 dicembre 2015.
D’altra parte, se una istanza non fosse stata proposta, non avrebbe alcun senso quanto affermato nella sentenza n. 813/2016, laddove – in disparte ogni considerazione sul travisamento dell’istanza medesima, al punto da farne successivamente ritenere in sede di revocazione, la non intervenuta percezione nel suo contenuto sostanziale – questa afferma (capo 22, terzo cpv. “infine, non può essere accolta la richiesta di rinvio pregiudiziale alla CGUE […] “.
18.4. In definitiva, può affermarsi che la “errata citazione” riscontrabile nella sentenza n. 2532/2018:
– per un verso, non può assurgere ad errore di fatto, posto che una istanza di rimessione alla CGUE (risultante dal “combinato” della memoria del 13 novembre 2015 e dalla istanza formulata all’udienza del 15 dicembre 2015) effettivamente esiste, sia pure non nei termini letterali riportati in sentenza, ed è di contenuto sostanzialmente sovrapponibile a quella invece erroneamente riportata (e per un confronto tra memoria e sentenza, si vedano le nome del diritto europeo, che si prospettano come pregiudicate dalla interpretazione nazionale, riportate alla sintesi di cui al punto 9.11, pag. 25 della sentenza n. 2532/2018);
– per altro verso, anche a voler riconoscere dignità di “errore” ad una errata citazione (pur nella sussistenza del “fatto”), tale errore non sarebbe comunque decisivo, proprio perché l’istanza di rimessione è stata comunque formulata.
Da quanto esposto consegue che il primo motivo di ricorso per revocazione comune ad entrambi i ricorrenti (su 16.3) deve essere, anche per queste ragioni, dichiarato inammissibile.
19. Si sono già esposte le ragioni che rendono inammissibili sia il secondo motivo comune ad entrambi i ricorrenti (sub 16.4), sia il motivo del ricorso per revocazione proposto dalla sola Ex. s.p.a. (sub 16.5).
A quanto già esposto, deve ulteriormente aggiungersi che tali motivi, anche a voler superare la (ulteriore) inammissibilità riscontrata (e derivante dal fatto che essi non denunciano un “errore di fatto” revocatorio), risultano comunque inammissibili anche per ulteriori ragioni, attinenti alla circostanza che l’errore per come da essi lamentato e ricostruito, non è riscontrabile in atti.
19.1. Quanto al secondo motivo di ricorso comune, giova osservare che la sentenza n. 2532/2018 – laddove precisa (punto 9.3) che, nell’ambito della sentenza n. 813/20156 “la rimessione alla Corte Europea è stata denegata sulla scorta della seguente motivazione: perché la recentissima decisione n. 8/2015 dell’Adunanza Plenaria ha reputato del tutto compatibile con il diritto dell’Unione Europea l’onere di mantenere il richiesto requisito di qualificazione per tutta la durata della procedura di gara” – non fa che riprodurre puntualmente il passaggio della sentenza n. 813/2015 cit. (capo 22), nel quale si riassume la ragione per la quale non poteva essere accolta la richiesta di rinvio pregiudiziale alla CGUE.
Nel rispetto del principio di sinteticità degli atti processuali non era necessario che la citata sentenza n. 2532/2018 esaminasse anche i successivi passaggi della sentenza revocanda (laddove si riproducevano ampi brani della motivazione della sentenza n. 8/2015 dell’Adunanza Plenaria, perché – diversamente da quanto sostenuto dalla ricorrente – tali passaggi si limitavano ad illustrare le ragioni per le quali, secondo l’Adunanza Plenaria, il requisito di qualificazione deve essere mantenuto per tutta la durata della procedura di gara, ossia continuavano a riferirsi al medesimo principio, in realtà non controverso tra le parti.
Nessun errore può, quindi, essere rilevato in relazione ai profili innanzi indicati.
Anche i successivi e finali periodi del capo 22 della sentenza n. 813/2016 (nei quali si fa riferimento all’art. 52, co. 1 e co, 2 della Direttiva 2004/18/CE) si collocano nell’alveo dei precedenti passaggi motivazionali e risultano, al pari dei precedenti, disallineati rispetto al reale contenuto della istanza di rimessione formulata dalla Si., sia pure con la tecnica innanzi ampiamente esposta.
Anche tale sviluppo della motivazione della sentenza n. 813/2016 muove, infatti, dal presupposto in base al quale, a seguito della cessione di un ramo di azienda, gli operatori economici si siano di per sé autonomamente “privati di una qualificazione a seguito di una scelta di politica dell’impresa” e riafferma il principio dell’automatica “perdita della qualificazione per effetto della cessione del ramo di azienda”, già applicato al capo 17, ult. cpv.
E ciò per affermare la proporzionalità e ragionevolezza di una normativa nazionale che assicuri ai suddetti operatori “le procedure per riacquisirli senza andare incontro a nessuna conseguenza pregiudizievole, solo che abbiano l’accortezza… di attivare tempestivamente e di coordinare le proprie iniziative con i tempi di svolgimento delle procedure di gara alle quali partecipano o intendano prendere parte”, nonché la sussistenza di una “giustificazione” che sorregga la contestazione della certificazione.
Anche sotto questi profili, dunque, si conferma che la sentenza n. 813 non esaminava la reale questione di diritto dell’Unione Europea posta da Si.
Quest’ultima, infatti, non contestava la ragionevolezza e proporzionalità delle modalità di riacquisto della certificazione previste dal diritto nazionale, o che la perdita della qualificazione per effetto della cessione di un ramo di azienda possa in astratto costituire adeguata giustificazione per contestare la certificazione SOA, bensì negava, in radice, che nel caso in esame potesse riscontrarsi, alla stregua del diritto dell’Unione a tale caso applicabile, una perdita della suddetta qualificazione a seguito della cessione del ramo d’azienda.
Il mancato specifico esame di tali passaggi motivazionali della sentenza n. 813/2016 da parte e/o nell’ambito della sentenza n. 2532/2018 non riflette, quindi, un errore da parte del Giudicante, ma piuttosto una consapevole e normale scelta redazionale poiché, in una logica di sintesi, a ragione si è ritenuto che tali passaggi non offrissero argomenti idonei ad escludere l’abbaglio dei sensi ravvisato nella sentenza n. 813/2016.
Da ciò consegue, a tutta evidenza, l’ulteriore ragione di inammissibilità del secondo motivo di revocazione comune ad entrambe le parti.
19.2. Anche con riferimento al motivo di revocazione proposto dalla sola Ex. s.p.a. non è dato ravvisare l’errore di fatto revocatorio ivi denunciato.
Con tale motivo si espone che – mentre la sentenza impugnata “presuppone che la sentenza n. 813/2016 abbia accolto l’appello CN. esclusivamente con riguardo al motivo (cd. tesi formalistica) relativo all’interpretazione dell’art. 76 (del DPR n. 207/2010, n. d.r.) secondo cui l’impresa concorrente ad una gara in cui ha esibito una SOA ottenuta sulla base di una certa consistenza aziendale e che decida di spogliarsene (anche in parte) decada da quella qualificazione essendo onerata di ottenerne tempestivamente un’altra, a prescindere da ogni esame sul contenuto concreto della cessione intervenuta” – invece la detta sentenza n. 813/2016 ha innanzi tutto accolto l’appello poiché “ha ritenuto che è alla stregua dei contenuti specifici del contratto di cessione di ramo di azienda che Si. deve ritenersi aver perduto la qualificazione richiesta in gara” (parr. 15 ss. della sentenza, in particolare par. 17).
Secondo la ricorrente, dunque, il “non essersi la sentenza in epigrafe avveduta del primo e del tutto autonomo e assorbente motivo di accoglimento… integra abbaglio decisivo perché il Collegio non incorrendo nella svista avrebbe indubbiamente rilevato come potesse anche del tutto prescindersi dalla questione della (inesistente) istanza di rimessione alla Corte di Giustizia”, posto che tale questione “afferisce esclusivamente alla correttezza o meno della tesi formalistica e cioè solo al secondo e aggiuntivo motivo di accoglimento dell’appello CN., fermo restando l’autonomia e decisività del primo”.
Al contrario di quanto ritenuto dalla ricorrente, la sentenza n. 813/2016 in realtà affronta sì funditus le questioni in ordine alla effettiva configurabilità di un contratto di cessione del ramo di azienda nel caso in esame, nonché in ordine al fatto che “il ramo ceduto comprendesse, pur nella sua limitazione dimensionale, tutti i requisiti per ottenere la qualificazione necessaria per partecipare alla gara de qua” (v. pagg. 31-32), concludendo affermativamente su entrambi i profili, ma non affronta la diversa questione e precisamente se, a seguito della cessione del ramo di azienda e del trasferimento alla cessionaria dei requisiti necessari per le qualificazioni relative ai contratti in corso, la cedente Si. restasse comunque di per sé, in ragione della sua struttura organizzativa, e nonostante tale cessione e indipendentemente da ulteriori acquisizioni, dotata dei requisiti sufficienti per mantenere le medesime qualificazioni senza perderle automaticamente.
Tale ultima questione non è affrontata dalla sentenza n. 813/2016 perché ritenuta irrilevante ai fini della decisione, in quanto quest’ultima aderiva all’interpretazione dell’art. 76 DPR n. 207/2010 (v. sul punto il capo 20), secondo la quale un trasferimento di ramo d’azienda con trasferimento delle qualificazioni dei lavori eseguiti da tale ramo determina di per sé la necessaria perdita della qualificazione da parte della cedente, salva la possibilità per quest’ultima di previamente “attivare il procedimento previsto dall’art. 76, co. 11, del DPR n. 207/2010” per conseguirne tempestivamente una nuova.
Da quanto sin qui esposto, emerge che la conclusione cui è pervenuta la sentenza n. 813 al capo 17, secondo cui “il Collegio ritiene… che a seguito della cessione in discorso, Si. abbia perso la qualificazione OG11 che il bando di gara richiedeva”, lungi dall’essere autonoma dalla risoluzione della questione interpretativa dell’art. 76 – che Si. poneva e domandava di rimettere alla CGUE per un suo esame alla stregua del diritto eurounitario – costituiva, al contrario, un precipitato della risoluzione di tale questione esegetica.
La sentenza n. 813/2016 non ha riconosciuto alcuna rilevanza all’attestazione resa da Protos SOA in sede di verifica triennale, né ha direttamente verificato se Si., ferma la cessione, conservasse di per sé requisiti sufficienti per la qualificazione in parola, proprio perché ha ritenuto che, in assoluto, (pag. 41) “è insostenibile l’interpretazione inversa, e cioè che si possano dare cessioni di rami di azienda senza perdita di diritto dell’attestazione relativa”, e che l’unico rimedio possibile offerto all’impresa cedente per evitare una soluzione di continuità nel possesso della qualificazione fosse la previa e tempestiva acquisizione di un’altra qualificazione con la procedura di cui al citato art. 76 (condizione non soddisfatta da Si. nel caso di specie).
Proprio in tal senso la sentenza (pag. 42) precisa che “la circostanza che, ceduto il ramo d’azienda, il soggetto cedente resti per avventura in dotazione di requisiti sufficienti per una determinata qualificazione non lo esonera dal chiedere ad una Società organismo di attestazione quella “attestazione di qualificazione” che – a norma dell’art. 60, comma 2, DPR n. 207/2010- costituisce condizione necessaria e sufficiente per la dimostrazione dell’esistenza dei requisiti di capacità tecnica e finanziaria ai fini dell’affidamento di lavori pubblici”.
Alla luce di quanto sin qui esposto, deve concludersi per l’inammissibilità anche del motivo revocatorio proposto dalla sola Ex. s.p.a., non essendo sussistente l’errore per come da essa lamentato e ricostruito.
20. Per tutte le ragioni sin qui esposte, i ricorsi per revocazione devono essere dichiarati inammissibili;
a) in primo luogo, per violazione del divieto di cui agli artt. 107, co. 2, Cpa e 403 c.p.c., non ricorrendo alcuna delle limitate e “specialissime” ipotesi di deroga a tale divieto indicate dalla giurisprudenza amministrativa;
b) in secondo luogo, per le ulteriori ragioni consistenti nel fatto che sia il secondo motivo revocatorio comune ad entrambi i ricorrenti (su 16.4), sia il motivo proposto unicamente da Ex. s.p.a. (sub 16.5), non configurano – con riferimento ad una sentenza di revocazione – alcun errore di fatto riportabile al caso di cui all’art. 395 n. 4 c.p.c., secondo quanto chiarito al punto 16.2 della presente decisione;
c) in terzo luogo, per la concorrente ragione che il primo dei motivi comuni ad entrambi i ricorrenti lamenta un errore di fatto in cui sarebbe incorsa la sentenza n. 2532/2018 invece non sussistente nel caso di specie, come evidenziato al precedente punto 18, e comunque in ogni caso non decisivo;
d) in quarto luogo, per le concorrenti ragioni che sia il secondo motivo revocatorio comune ad entrambi i ricorrenti, sia il motivo revocatorio proposto dalla sola Ex. lamentano errori che – ove anche si volesse ritenere quanto lamentato astrattamente riconducibile al caso di cui all’art. 395 n. 4 c.p.c. – non risultano sussistenti alla luce di una corretta analisi del testo della sentenza n. 2532/2018.
Le spese di giudizio sono poste in solido a carico delle parti soccombenti e sono liquidate, rispettivamente, in favore di Si. nella misura di euro tremila/00 (3.000,00), oltre accessori come per legge, e in favore di Consip nella misura di euro tremila/00 (3.000,00), oltre accessori come per legge.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
Sezione Quarta,
definitivamente pronunciando sui ricorsi per revocazione proposti da Ex. s.p.a. (n. 4711/2018 r.g.) e da Co. Na. Se. società cooperativa, in proprio e nella qualità descritta in epigrafe (n. 5344/2018 r.g.), riunisce i ricorsi e li dichiara entrambi inammissibili.
Condanna le parti soccombenti al pagamento delle spese di giudizio, come liquidate in motivazione.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 11 ottobre 2018 con l’intervento dei magistrati:
Paolo Troiano – Presidente
Oberdan Forlenza – Consigliere, Estensore
Nicola D’Angelo – Consigliere
Giovanni Sabbato – Consigliere
Silvia Martino – Consigliere

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