Consiglio di Stato, sezione terza, Sentenza 29 aprile 2019, n. 2773.

La massima estrapolata:

La comunicazione antimafia si fonda, sul semplice accertamento che, a carico di determinati soggetti, siano state o meno applicate misure di prevenzione personali definitive o pronunciate condanne con sentenza definitiva o confermata in appello per i delitti sopra menzionati, essa costituisce atto di natura vincolata che non lascia spazio alcuno per valutazioni discrezionali.

Sentenza 29 aprile 2019, n. 2773

Data udienza 14 febbraio 2019

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale
Sezione Terza
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 3933 del 2018, proposto da
Ministero dell’Interno – U.T.G. Prefettura di Pesaro e Urbino, in persona del Ministro pro tempore,
rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso i cui uffici è per legge domiciliato in Roma, via (…);
contro
-OMISSIS-, non costituito in giudizio;
per la riforma
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per le Marche – Ancona, sez. I, del 31 ottobre 2017, n. -OMISSIS-, resa tra le parti, con cui è stato rigettato il ricorso avverso la comunicazione interdittiva antimafia adottata dal Prefetto della Provincia di Pesaro e Urbino in data 21.2.2017, prot. interno -OMISSIS- class. 11.01 del 22.2.2017, recante accertamento delle cause decadenza, sospensione o divieto ex art. 67 del D.Lgs. n. 59/201.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 14 febbraio 2019 il Cons. Francesco Guarracino e udito per la parte appellante l’avvocato dello Stato Wa. Fe.;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO e DIRITTO

Con ricorso al Tribunale Amministrativo Regionale per le Marche il sig. -OMISSIS- impugnava la comunicazione antimafia interdittiva adottata nei suoi confronti dal Prefetto della Provincia di Pesaro e Urbino, prot. -OMISSIS- del 22 febbraio 2017, perché condannato, con sentenza divenuta irrevocabile in data 11 dicembre 2008, per il reato di cui all’art. 416 bis c.p.
Esponeva in fatto di essere stato ammesso, dal 2006, al sistema di protezione per i collaboratori di giustizia e di aver beneficiato, nel 2016, della capitalizzazione per reinserimento lavorativo delle misure di assistenza economica, acquistando un’attività di -OMISSIS-, e denunciava in diritto la violazione dell’art. 13, comma 5, della legge 15 marzo 1991, n. 82, e dell’art. 10, comma 15, del DM n. 161/2004, il cui scopo non sarebbe solo di ottenere collaborazione dai soggetti coinvolti, ma anche di fornire una serie di strumenti volti a tutelarli e a favorirne il reinserimento nella società .
Con sentenza n. -OMISSIS- del 31 ottobre 2017, il T.A.R. adito, interpretando l’unico motivo di ricorso come volto a contestare l’adozione del provvedimento interdittivo sulla base di un mero automatismo basato sulla pregressa e risalente sentenza di condanna, senza la valutazione di elementi e circostanze sopravvenuti idonei ad escludere l’attualità del pericolo di infiltrazioni mafiose, accoglieva il ricorso e annullava la comunicazione antimafia con la motivazione – sulla premessa che le fattispecie ostative ex art. 67, comma 8, D.lgs. n. 159/2011 sarebbero efficaci solo per un quinquennio e non avrebbero efficacia automaticamente preclusiva – che “Nella sostanza la valutazione prefettizia deve sempre basarsi sulla “situazione aggiornata”, contemplante eventuali fatti nuovi, sia in senso migliorativo che peggiorativo della situazione del soggetto esaminato (cfr. TAR Campania, Salerno, Sez. II, 5.6.2017 n. 1017)” e che “Nel caso specifico l’attualità della pericolosità criminale viene dedotta esclusivamente in base ad una sentenza passata in giudicato nell’anno 2008, senza tuttavia alcun accenno – e quindi valutazione – degli elementi indubbiamente favorevoli al ricorrente emersi successivamente”.
Con ricorso in appello il Ministero dell’Interno ha chiesto la riforma della sentenza, sostenendo che in base all’art. 67, comma 2, del D.lgs. 159/2011 la condanna per un reato ostativo comporta la decadenza di diritto dalle licenze, autorizzazioni etc., senza lasciare alcun margine di discrezionalità nella valutazione della gravità del reato; che, a differenza dell’informativa antimafia, la comunicazione antimafia, risolvendosi nella mera verifica della sussistenza o meno di una delle cause di decadenza, di sospensione o di divieto di cui all’art. 67, costituisce provvedimento di carattere vincolato che discende di diritto dall’accertamento della sussistenza delle predette cause; che, diversamente da quanto ritenuto dal T.A.R., la limitazione temporale dell’efficacia ostativa prevista dall’art. 67, comma 4, non si riferisce alla persona direttamente interessata dalla condanna o destinataria della misura di prevenzione, bensì esclusivamente al convivente od alla società riferibile alla persona medesima; che, infine, dalle verifiche compiute dal Prefetto non è emerso alcun elemento idoneo a scalfire l’efficacia ostativa della condanna a carico dell’appellato, non avendo questi richiesto la riabilitazione prevista dall’art. 178 c.p. e non constando all’amministrazione alcuna norma o direttiva che preveda una deroga all’applicazione della vigente normativa antimafia nel caso di ex collaboratori di giustizia.
Con ordinanza n. -OMISSIS- del 14 giugno 2018 la Sezione ha autorizzato il rinnovo della notifica del ricorso in appello presso il nuovo domicilio del difensore dell’appellato e con ordinanza n. -OMISSIS- del 13 settembre 2018 ha sospeso l’esecutività della sentenza appellata.
Alla pubblica udienza del 14 febbraio 2019 la causa è stata trattenuta in decisione.
L’appello è fondato.
Nel sistema della documentazione antimafia previsto e disciplinato dal D.lgs. 159/2011, la comunicazione antimafia consiste, ai sensi dell’art. 84, comma 2, nell’attestazione della sussistenza o meno di una delle cause di decadenza, di sospensione o di divieto di cui all’art. 67.
Queste, che operano di diritto (art. 67, commi 2 e 8), sono costituite (art. 67, commi 1 e 8) dai provvedimenti definitivi di applicazione delle misure di prevenzione di cui all’art. 6 del medesimo decreto e dalle condanne con sentenza definitiva o confermata in appello per i delitti consumati o tentati elencati all’art. 51, comma 3 bis, c.p.p., nonché (a seguito delle modifiche introdotte con il d.l. 4 ottobre 2018, n. 113, convertito, con modificazioni, dalla l. 1 dicembre 2018, n. 132) per i reati di cui all’articolo 640, secondo comma, n. 1, c.p., commesso a danno dello Stato o di un altro ente pubblico, e all’articolo 640-bis c.p.
Poiché la comunicazione antimafia si fonda, dunque, sul semplice accertamento che, a carico di determinati soggetti, siano state o meno applicate misure di prevenzione personali definitive o pronunciate condanne con sentenza definitiva o confermata in appello per i delitti sopra menzionati, essa costituisce atto di natura vincolata che non lascia spazio alcuno per valutazioni discrezionali.
Questo è vero per tutte le comunicazioni antimafia, sia che si tratti di comunicazioni liberatorie emesse de plano, allorché dalla consultazione della banca dati nazionale unica della documentazione antimafia non emerga la sussistenza di cause di decadenza, di sospensione o di divieto di cui all’art. 67 a carico dei soggetti censiti (art. 88, comma 1, D.lgs. 159/2011), sia che si tratti di comunicazioni, interdittive o liberatorie, emesse all’esito degli ulteriori accertamenti richiesti dall’art. 88, comma 2, quando dalla consultazione della banca dati emerga, viceversa, la sussistenza di cause di decadenza, di sospensione o di divieto, nel qual caso la legge stabilisce che il prefetto effettui le necessarie verifiche e accerti la corrispondenza dei motivi ostativi emersi dalla consultazione della banca dati alla situazione aggiornata del soggetto sottoposto agli accertamenti.
In particolare, poiché i motivi ostativi sono le cause di decadenza, di sospensione o di divieto di cui all’art. 67, le verifiche sulla corrispondenza dei motivi ostativi emersi dalla consultazione della banca dati alla situazione aggiornata del soggetto sottoposto ad accertamenti in tanto possono dare esito negativo, con conseguente rilascio della certificazione antimafia liberatoria (art. 88, comma 3), in quanto, nell’attualità, non sussista più alcuna di quelle cause di decadenza, di sospensione o di divieto (cfr. C.d.S., sez. III, 8 marzo 2017, n. 1109).
Ciò implica un accertamento in merito al fatto che gli effetti pregiudizievoli della misura di prevenzione personale o della sentenza di condanna possano essere cessati, il che può accadere per effetto di successiva riabilitazione (art. 178 c.p.; art. 70 D.Lgs. n. 159/2011; TAR Lombardia, Milano, sez. I, 25 luglio 2018, n. 1811) ovvero, in una diversa prospettiva, perché la causa ostativa non è più, giuridicamente, riferibile al soggetto interessato (T.A.R. Sicilia, Catania, sez. II, ordinanza 28 settembre 2016, n. 2337, per l’esempio del legale rappresentante di una società di capitali, il quale, già colpito da una delle misure di prevenzione previste dal D.lgs. 159/2011, risulti ormai estraneo all’impresa).
Diversamente da quanto opinato nella sentenza appellata, non risponde al vero, invece, che le fattispecie ostative ex art. 67, comma 8, al rilascio della comunicazione antimafia liberatoria abbiano, in generale, una efficacia limitata al quinquennio previsto dal comma 4 dello stesso articolo, espressamente richiamato dal comma 8.
Difatti la disposizione di cui all’art. 67, comma 4, circoscrive in cinque anni l’ambito temporale di efficacia dei divieti collegati alla ricorrenza delle cause ostative sopra menzionate non già per la persona sottoposta alla misura di prevenzione o condannata, bensì con riferimento esclusivo (come reso palese dall’uso delle parole “in tal caso”) a chi con costui conviva, nonché alle imprese, associazioni, società e consorzi di cui la persona sottoposta a misura di prevenzione sia amministratore o determini in qualsiasi modo scelte e indirizzi.
Lo stesso deve dirsi per il richiamo al comma 4 operato dal comma 8 del medesimo art. 67.
Di conseguenza, poiché l’appellato ha, a suo carico, una sentenza irrevocabile di condanna per il reato di cui all’art. 416 bis c.p. e non ha chiesto ed ottenuto la riabilitazione, l’emissione di una comunicazione antimafia interdittiva nei suoi riguardi costituisce esito doveroso e vincolato di quella risultanza, restando precluso al Prefetto ogni apprezzamento discrezionale in merito all’attualità della sua pericolosità criminale.
Per questa ragione l’appello deve essere accolto e per l’effetto, in riforma della sentenza appellata, respinto il ricorso proposto in primo grado.
La peculiarità della vicenda giustifica la compensazione delle spese del doppio grado di giudizio.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale
Sezione Terza, definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie e per l’effetto, in riforma della sentenza appellata, respinge il ricorso di primo grado.
Compensa le spese del doppio grado di giudizio.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all’art. 52, comma 1 d.lgs. 30 giugno 2003 n. 196, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all’oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare l’appellato.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 14 febbraio 2019 con l’intervento dei magistrati:
Franco Frattini – Presidente
Pierfrancesco Ungari – Consigliere
Giovanni Pescatore – Consigliere
Giulia Ferrari – Consigliere
Francesco Guarracino – Consigliere, Estensore

In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.

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